Cefalù, presentato al Cinema Di Francesca il film di Pasquale Scimeca sul giudice Terranova

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Non solo la vita del giudice Cesare Terranova e dell’amico e collaboratore Lenin Mancuso ma anche venti anni di vita civile e politica italiana nel film di Pasquale Scimeca “Il Giudice e il Boss”, proiettato al Di Francesca di Cefalù, presente l’Assessore comunale alle politiche culturali Antonio Franco, fra i promotori della proiezione, e l’Assessore alle politiche sociali, Laura Modaro, oltre allo stesso Scimeca, a Carmine Mancuso, figlio di Lenin, e all’attore Vincenzo Albanese, nel cast del film.

La proiezione è stata seguita da un pubblico di cittadini, studenti e docenti delle scuole superiori di Cefalù, ed esponenti delle forze dell’ordine, di cui anche Carmine Mancuso, come il padre, ha fatto parte.

Il giudice Terranova e il maresciallo Lenin Mancuso vennero assassinati da sicari della mafia la mattina del 25 settembre 1979, a Palermo. Terranova, tornato al ruolo di magistrato dopo aver concluso il suo secondo mandato nelle fila del parlamento italiano, stava per essere nominato capo dell’Ufficio Istruzione del tribunale di Palermo in virtù del suo ventennale impegno nella lotta contro la mafia, capace già allora di tenere in scacco una nazione con un sistema di potere ben compreso dalla mente lucida e dalla finezza d’intuito del magistrato.

Proprio per queste sue eccezionali capacità Terranova era considerato un punto di riferimento da tutte le forze in campo nel paese per contrastare la mafia e le reti criminali allargatesi da dopo la guerra.

Ricordare e ancor più far conoscere alla nuova generazione la figura di Cesare Terranova appare particolarmente importante perché da essa prende origine una serie di capisaldi della giustizia italiana che avrà come personaggi di punta Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

I due giudici, noti in tutto il mondo per le tragiche vicende del ‘92, hanno avuto dietro di sé modelli, non solo di rettitudine e senso delle istituzioni ma anche procedurali. In ciò che riguarda la pratica dell’investigazione e la ricerca delle prove, a cominciare dall’utilizzo di testimoni reclutati nelle fila della stessa mafia e delle sue vittime. Tra gli affiliati caduti in disgrazia e condannati a morte da cosa nostra sono oggi annoverati esponenti di spicco che hanno cambiato il modo di rapportarsi al mondo criminale e fatto luce sulla sconcertante realtà delle zone grigie, dove gli organi di governo, i vertici della difesa nazionale e persino le gerarchie ecclesiastiche sono inquinate da interessi difesi con pratiche oscure.

Come narrato nel film, Terranova era nato a Petralia Sottana ma la famiglia si trasferirà a Messina dove Cesare si iscrive alla facoltà di giurisprudenza sulle orme del padre, magistrato. Dopo i primissimi incarichi Terranova approda a Palermo dove forma la propria esperienza con l’ambiente delle borgate in cui il peso del controllo mafioso è direttamente proporzionale alla rassegnazione e all’omertà dei cittadini. Quindi viene assegnato a Corleone, che è stata sede di tribunale fino a una decina di anni fa.

Ben delineato nella pellicola è il personaggio della moglie di Terranova, Giovanna, accanto al marito in un continuo apparire e scomparire: una donna che esiste nell’amore dell’uomo Cesare ma che non può esserci come sposa accanto al giudice. Giovanna sa che la sua vita non può essere come quella delle altre mogli, ne soffre ma non rinuncia un solo istante a quel ruolo difficile. Il film sottolinea in modo realistico anche il ruolo delle donne all’interno della realtà mafiosa, come compagne, madri, sorelle di boss e comprimari, ma anche come testimoni coraggiose o disperate, capaci in entrambi i casi di ribellarsi alla violenza e alla paura.

Centrale nella trama del film è la contrapposizione, quasi una sfida epica, poiché questi furono i termini per il periodo storico in cui si colloca, tra il giudice Terranova e l’antagonista Luciano Leggio (vero nome di Liggio all’anagrafe), il boss, appunto, del titolo. Una sfida che ha come sfondo venti anni di vita civile italiana.

Negli atti presentati al processo che venne celebrato nel 1969 a Bari, per il legittimo sospetto di pressioni sui giurati nel caso in cui si fosse svolto in Sicilia (come del resto per il precedente, tenutosi a Catanzaro, e detto anche il processo dei 117), facendo emergere i nomi di Luciano Leggio, Michele Greco, Tano Badalamenti, Tommaso Buscetta, Pippo Calò, Totò Riina, Bernardo Provenzano ed altri, molti dei quali allora praticamente sconosciuti alla giustizia, Cesare Terranova disegna per la prima volta la mappa completa del potere mafioso in Sicilia; quasi tutti gli imputati da lui mandati a giudizio si ritroveranno imputati nel maxiprocesso del 1986-87 a Palermo e quasi tutti saranno condannati.

Con modalità rivoluzionaria per quei tempi, il giudice Terranova denunciò nelle istruttorie dei due procedimenti le infiltrazioni mafiose nei vari settori della vita pubblica e nelle istituzioni della Repubblica, facendo esplicito riferimento a Salvo Lima come figura protagonista degli intrecci mafia-politica, oltre che del sacco edilizio di Palermo negli anni ‘60. Uscito sempre indenne da ogni tentativo di portarlo in giudizio, il deputato democristiano non sfuggirà alla sentenza di morte pronunciata per lui proprio da Cosa nostra, nel marzo del 1992.

La grande delusione di Terranova per l’esito dei processi di Catanzaro e Bari viene mitigata nel 1970 dalla condanna all’ergastolo inflitta a Luciano Liggio per l’omicidio di un altro mafioso di Corleone, il medico Michele Navarra, dalla Corte d’Assise d’appello di Bari, che rivede dopo un anno la pregressa sentenza assolutoria. Liggio, allora latitante, sarà arrestato a Milano solo nel 1974 e rimarrà in carcere per quasi vent’anni, fino alla morte, nel 1993.

Nell’interessante dibattito seguito alla proiezione sono emersi tanti altri aspetti della figura di Cesare Terranova, come quello dell’ impegno politico, intrapreso a seguito delle insistenti richieste provenienti da esponenti nazionali del PCI, che lo indussero ad accettare, nel 1972 la candidatura come indipendente nelle liste di quel partito, attività per allora non consueta per un giudice di così alto profilo. Una scelta sofferta che tuttavia fu premiata: Terranova risultò il secondo degli eletti nelle liste del PCI nella circoscrizione della Sicilia occidentale, dietro a Emanuele Macaluso e davanti a Pio La Torre, due uomini che si erano dedicati alla politica a tempo pieno

Con La Torre, Terranova avviò una feconda collaborazione che condusse a porre le basi di quella che sarà un pilastro della legislazione antimafia: la legge Rognoni-La Torre, grazie alla quale Cosa nostra poté e può oggi essere colpita nei suoi interessi e patrimoni economici e rappresentò pertanto un colpo durissimo per i clan. Anche questo particolare è stato ricordato dal regista nel momento di dialogo con gli spettatori.

Nel 1979, alla fine del suo secondo mandato, Cesare Terranova decise di ritornare nella magistratura, rinunciando alla prestigiosa candidatura, offertagli ancora dal PCI, al Parlamento europeo. Se da un lato possiamo immaginare che Terranova fosse in parte deluso dall’incapacità del Parlamento di tradurre in azioni concrete ed efficaci gran parte delle iniziative promosse, la motivazione più forte va senz’altro ricercata nella voglia di riprendere il lavoro che gli era più congeniale, tanto più che al tribunale di Palermo si era venuta a creare una congiuntura particolarmente favorevole essendo Gaetano Costa e Rocco Chinnici, colleghi e amici di Terranova, rispettivamente Procuratore capo e Consigliere Istruttore aggiunto. Terranova fece quindi domanda per l’incarico di Istruttore capo, preparandosi a formare un team preparato ed agguerrito contro la mafia.

Così, alcune settimane dopo il suo rientro, quel giudice tanto pericoloso per la sua sagacia e il suo coraggio viene eliminato da Cosa Nostra con un agguato nel pieno centro città.

Con cenno delicato e toccante il regista ci racconta quanto il Cesare Terranova fosse consapevole di essere nel mirino dei Corleonesi, specialmente dopo essere venuto a conoscenza delle rivelazioni del boss Di Cristina sull’esistenza di un piano per ucciderlo, al punto da scrivere in una lettera datata 1 marzo 1978,  un breve testamento, materiale ma soprattutto spirituale indirizzato alla moglie Giovanna alla quale chiede di realizzare i suoi ultimi desideri.

È vero che nel 1979 la mafia siciliana non aveva ancora ancora dato inizio a quella lunga stagione di delitti cosiddetti  “eccellenti” e che non si erano ancora verificate, fino a questo momento, per gli uomini di legge quelle circostanze di rischio quotidiano di venire uccisi: una escalation che inizierà di lì a poco senza che l’opinione pubblica si renda mai veramente conto, fino alla strage di Capaci, di quanto più che l’insufficienza delle misure di protezione, fosse la condizione di totale isolamento a condannare a morte a Palermo i servitori dello stato come accadrà, dopo Terranova, al capitano Emanuele Basile, al procuratore Costa, al prefetto Dalla Chiesa, al commissario Montana, agli agenti Calogero Zucchetto e Natale Mondo, ai giudici Rocco Chinnici e Rosario Livatino, al vicequestore Ninni Cassarà, e agli stessi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

L’unico giudice caduto per mano mafiosa prima di Cesare Terranova, a partire dal dopoguerra, era stato Pietro Scaglione, nel 1971.

Fatto è che non vi furono grandi reazioni alla morte di Terranova e Mancuso da parte della società civile. I condomini dell’abitazione sotto il quale fu commesso il delitto si opposero, allora, all’affissione di una targa commemorativa sulla facciata del palazzo, scelta che seppur sconcertante è in qualche modo comprensibile data l’aria che si respirava a Palermo alla fine degli anni ’70.

Quanto alle conseguenze del delitto sul piano della giustizia i processi per l’omicidio di Terranova e Mancuso furono ben tre. Nei primi due gli imputati, tra cui Liggio, furono assolti per insufficienza di prove. Nel terzo, svoltosi nel 2000, la Corte d’Assise di Reggio Calabria li condannò invece tutti all’ergastolo; una sentenza resa definitiva nel 2004 in Cassazione.

Oggi le targhe e le proposte di intitolazione di edifici e pubbliche vie alla memoria di Cesare Terranova e Lenin Mancuso sono senz’altro molto più ben accette e numerose in molte regioni d’Italia, ma a rischiare di affievolirsi è piuttosto la memoria dell’importanza della loro attività antimafia.

Il film di Scimeca, presentato al Taormina Film Fest lo scorso luglio e scritto insieme al giornalista Attilio Bolzoni, contribuisce in modo sensibile a far rivivere la un protagonista di prima grandezza della storia della magistratura in Italia. È necessario conoscere a fondo non soltanto i nomi e vicende essenziali della vita di questi protagonisti quanto soprattutto i particolari meno noti nei quali però si cela la eccezionalità del lavoro di un giovane magistrato Siciliano e del suo più fidato e importante collaboratore perché è quello ad aver rappresentato un bagaglio fondamentale per tanti altri che a loro sono seguiti. La memoria sì nutre del riconoscimento di un valore concreto che si aggiunge al sacrificio e gli conferisce senso, come per qualunque combattente che abbia perso la vita conquistando una metà. Solo così il raffronto con gli apparenti vantaggi della scelta criminale o ambiguamente collusa, può restituire la vera dimensione delle parti in campo.

Durante il dibattito il regista Scimeca ha fatto appello alla sala per fornire un contributo alla realizzazione di un film sull’agente di polizia Calogero Zucchetto, firmando una petizione scritta dalla sorella di Zucchetto, Santina, nel medesimo spirito di ricordo di quegli eroi per la difesa della Legge come esempi da imitare per un mondo più giusto e libero.

Barbara De Gaetani

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