Anche quel giorno lo studio era stato affollato, come sempre. D’altra parte, trattandosi di uno dei più noti studi medici della città, la cosa appariva ovvia, o così preferiva far pensare con sussiego il Dr. Alberto Foa, fiero del frutto del suo lavoro, della sua passione, di quella che chiamava orgogliosamente una “scelta di vita”. Nessuno stupore, quindi, che anche la vigilia di Natale lo studio fosse stato pieno come un uovo. Accadeva così da almeno un quarto di secolo, da quando Foa aveva iniziato la sua attività. Il segreto del suo successo? La massima disponibilità verso i pazienti, diceva lui; una specie di ossessione per il lavoro, dicevano gli altri. E non era, contrariamente a quanto si poteva credere, un problema di denaro: questa poteva essere stata una buona motivazione agli inizi della carriera, ma ora era un semplice fatto incidentale. Massimalista, specialista in medicina interna, con una serie di incarichi “paralleli” (da quelli sindacali a quelli di perito e consulente), non contava più i guadagni. Ciò che era importante erano il prestigio, la disponibilità, la presenza, specialmente quando gli altri colleghi staccavano la spina, delegavano, si dedicavano ad altro. Per Alberto Foa “dedicarsi ad altro” era una bestemmia, un sacrilegio, un’offesa al giuramento d’Ippocrate. Foa era medico: sempre, comunque e dovunque.
I risultati professionali di una simile politica erano lì, sotto gli occhi di tutti. Certo, questo aveva un costo, che egli pensava fosse necessario e inevitabile. La pratica della medicina implicava rinunce, sacrifici e un’adeguata comprensione da parte delle persone più vicine. Quando si era sposato la prima volta, ad appena 25 anni, lo aveva detto chiaramente alla moglie, giovane e innamoratissima. E lei era stata d’accordo. Aveva rinunciato al viaggio di nozze, perché coincideva con l’apertura dello studio. Aveva rinunciato a viaggi, feste, gite, cene con gli amici, per gli impegni di lavoro del marito. E aveva rinunciato per buona misura anche al sesso, perché Alberto era sempre stanco, stressato, iper-responsabilizzato. Lei era una ragazza molto responsabile, riflessiva, seria. Così, quando un giorno, tornando a casa, Alberto aveva trovato sul tavolo di cucina un biglietto con il quale la moglie gli comunicava che se n’era andata per sempre, francamente non aveva capito.
Aveva vissuto quell’evento come un fatto assolutamente incredibile. Aveva delegato al suo avvocato le pratiche di divorzio ed aveva approfittato della ritrovata indipendenza per potenziare le qualità del suo lavoro. Da allora non l’aveva più vista. E da allora la sua carriera aveva avuto uno straordinario successo.
A trent’anni aveva deciso di risposarsi, con Clara una donna più matura della prima e più responsabile e attenta. Il loro unico figlio era nato appena un anno dopo il matrimonio: Giorgio, intelligente, bello e vivace. Aveva un solo difetto: essere un bambino. E Alberto aveva scoperto presto che i figli sono assai peggio delle mogli. Pretendono passeggiate, giostre, favole la sera. E come si fa a spiegare a un bambino che tutto ciò non è possibile perché papà lavora, perché il lavoro di papà è così nobile, così particolare? Ci voleva tanta pazienza. E lui l’aveva avuta. Aveva cominciato a spiegare al bambino che le favole erano storie inutili, che papà faceva un lavoro molto importante, che andare alla giostra era un passatempo stupido e così via. Gli aveva procurato una baby-sitter attentamente selezionata e programmato nei minimi dettagli la sua giornata.
Sino a quando Giorgio non compì i quattro anni, le cose sembrarono essersi aggiustate. Ma in quel momento erano cominciati i problemi. Ed erano iniziati in quello stesso momento dell’anno, il periodo natalizio. Giorgio aveva preso a parlare di Babbo Natale e Foa gli aveva spiegato che si trattava di una leggenda, che Babbo Natale non era mai esistito, così come non erano mai esistiti Cappuccetto Rosso o Biancaneve, che i sette nani erano la metafora di un’alterazione ormonale, e che era sempre importante distinguere fra la realtà e l’illusione. Ma non andava bene. Giorgio appariva sempre più triste e Clara sempre più nervosa. Anzi, a un certo momento lei gli aveva detto che avrebbero dovuto discutere di tante cose. Quella sera, però, Alberto era invitato a un incontro medico e quindi avrebbero dovuto rimandare la discussione. L’avevano rinviata. E l’avevano rimandata anche la volta successiva (un incontro sindacale) e quella dopo ancora (una visita urgente).
Avevano rimandato per mesi: erano riusciti a discutere solo quando Giorgio aveva da poco compiuto sei anni, ed era da poco in cura dal Dr. Leboni, un neuropsichiatra infantile di indubbia fama. Era stata una discussione molto civile. Clara, esplicita, gli aveva detto che il bambino stava molto male e che Leboni aveva ipotizzato che la causa fosse l’assoluta povertà di fantasie e di giochi che caratterizzava la sua vita. Alberto si era arrabbiato e aveva replicato che non intendeva affatto (enfatizzò la parola affatto) stare a discutere di fandonie e questioni irrazionali o irragionevoli. Il suo parere era che non fossero pedagogici. Giorgio aveva bisogno assoluto di capire la differenza fra realtà e illusioni, di vivere nella realtà vera e abbandonare quanto prima sogni e fole infantili. “Ma ha solo sei anni…”, aveva obiettato timidamente la moglie. “Bastano”, aveva risposto Foa seccamente. Era stato a quel punto che la moglie si era arrabbiata come mai aveva fatto da quando si conoscevano.
“Basta tu, Alberto, ora veramente basta! Nostro figlio sta male e sta male, probabilmente, perché tu sei assente, sempre e comunque, e sicuramente perché tenti di imporgli la tua visione del mondo. Siamo a Natale e a casa nostra non c’è segno di festa: non l’albero di Natale, non il presepe; nulla di nulla; non si fanno regali. Perché tu sei convinto che siano tutte stupidaggini, che è sbagliato dire ai bambini che Babbo Natale esiste. Te lo ripeto: ora basta!”. Aveva alzato la voce e la cosa lo aveva molto infastidito. Aveva risposto quello che gli era parso più opportuno: “Non mi puoi imporre di credere in stupidaggini. Stiamo perdendo tempo. Vado allo studio”. E se ne era andato.
Tutto questo era accaduto tre giorni prima. Da allora la moglie non gli aveva più rivolto la parola e Giorgio stava sempre a letto, comunicando per cenni, assente, triste e muto. Pazienza, aveva pensato; sono reazioni di adattamento.
Da tempo s’era fatto un punto d’onore rimanere in studio la notte di Natale sino a tardi: l’aveva sempre fatto e anche quell’anno, chiacchiere di Clara a parte, la cosa non faceva differenza. Ora era lì. Si sentiva bene. Era nella sua realtà, nel suo mondo. Il Dr. Alberto Foa voleva un mondo stabile, con valori incrollabili e consuetudini forti come l’acciaio; come per esempio visitare, misurare pressioni arteriose instabili, prescrivere farmaci per l’ipertrofia prostatica anche il 24 di dicembre, sino a tarda sera. Esserci e fare, senza fantasie, senza storie e senza finzioni: ecco la regola, la norma, la sicurezza.
Rifletteva su queste e altre cose, quando la segretaria aprì l’uscio dell’ambulatorio. Stava con lui da anni. Lo riscosse dalle sue riflessioni. “Dottore, sono le 22,30. Non c’è nessun altro paziente. Posso andare?” Fece una pausa. “Capisce dottore, è una notte particolare…” Foa la guardò con curiosità. Sì, era una notte particolare per tutti ma non per lui. “Va bene Elisa. Va bene. Puoi andare”. Elisa fece un sorriso. Si avviò alla porta. Prima di aprirla si fermò un attimo e si girò verso Foa. Sembrava imbarazzata. “Buon Natale, dottore”. Foa annuì. La segretaria uscì.
Certo, anche lui avrebbe potuto e dovuto tornare a casa. Ma era ancora presto e sapeva che l’atmosfera di casa non era delle migliori. Meglio attendere un altro po’. Aveva bisogno di ritrovarsi; poi sarebbe tornato a casa. Era piuttosto risentito, in verità. Il rimprovero della moglie di qualche giorno prima lo aveva infastidito. In fondo non era colpa sua se il figlio stava male, e non gli si poteva rimproverare di non credere alla favole. A lui, da bambino, figlio di un padre severissimo e di una madre per nulla incline alle fantasticherie, non ne avevano mai raccontato e lui non era mai andato dal neuropsichiatra infantile. Aveva abbandonato credenze e illusioni quand’era alle elementari e anziché credere in stupidaggini aveva trasformato la realtà in un fatto assolutamente operativo. Lui faceva. I pazienti lo adoravano, si fidavano e questa era una grande conferma. La realtà, per dirla chiaramente, era infinitamente più interessante e cose concrete e dimostrabili erano infinitamente più affascinanti. Se era così impegnato, era perché aveva qualcosa di davvero importante da fare.
Stava indugiando su questi pensieri, quando il trillo del campanello si inserì prepotentemente, con un non so che di irriverente. Guardò l’orologio sulla scrivania: le 22,45. Un po’ tardi. Chi può suonare al campanello di uno studio medico la notte di Natale? Si alzò e andò all’uscio. Guardò dallo spioncino, e intravide una persona anziana. Quando aprì, si ritrovò davanti un anziano signore, con un colbacco pesante in testa, la faccia rotonda e il naso rosso per il freddo, una barba bianca curata, non particolarmente lunga. Indossava un pastrano grigio, molto ampio, coi baveri alzati. Aveva un’aria rispettabile. Prima che potesse dire qualcosa, l’anziano si presentò educatamente.
“Mi scusi, dottore, se la disturbo a quest’ora, ma avrei bisogno di lei. Mi perdoni, so bene che è una notte particolare…” Il vecchio aveva una voce profonda, rassicurante, accattivante. Una voce ambrata, calda. Foa non aveva mai sentito una voce così. Fu, come si dice, preso in contropiede.
“Ma si immagini… Si accomodi pure, sono pur sempre un medico”. L’uomo sorrise, mentre varcava la soglia dello studio.
“Lo so, a quest’ora potrei andare in ospedale, o da una guardia medica, ma è molto tardi e io non mi oriento bene in città. Passando ho visto le luci accese nel suo studio e ho pensato che ci fosse qualcuno. Ma se la importuno me lo dica. Provvederò altrimenti…” Foa fece per rispondere ma il vecchio parlò ancora: “…e poi dottore, sarò sincero. Mi hanno parlato così bene di lei…”. Foa lo guardò incuriosito e inorgoglito.
“E chi, mi scusi? Non ha detto poco fa che non conosce bene la città?”.
“Oh certo, certo dottore. Ma vede, io per lavoro viaggio molto e ho molti amici con i quali sono, per così dire, in corrispondenza. Le voci corrono, i bravi medici sono sempre più rari. Quando ho visto le luci del suo studio accese ho pensato di essere stato molto fortunato…” Foa accennò un sorriso, compiaciuto.
“La ringrazio e… Be’, non… non si preoccupi. Vedrò cosa posso fare…” Scosse impercettibilmente il capo e si avviò verso la stanza dove riceveva. Indicò la poltrona davanti alla scrivania. Il vecchio ringraziò con un cenno e si sedette, non prima di essersi tolto il colbacco di pelo. Aveva molti capelli candidi, ben pettinati, corti. Lo guardava con un sorriso buono, un po’ intimidito.
“Prego, mi dica”, disse Foa. Il vecchio si raccolse nel suo largo cappottone grigio grigio.
“Fa freddo davvero questa sera… Non le farò perdere molto tempo dottore, lei è davvero gentile. Ho un problema, uno strano malessere, che provo da alcuni giorni ma che questa sera si è aggravato, credo…” Foa avvertì una corrente di simpatia.
“Cosa si sente?”
“E’ difficile spiegarlo. Certo, ho la mia età e col mestiere che faccio, in certi periodi sempre in giro, di notte, ho sicuramente l’artrosi; prendo freddo. In genere faccio l’operaio e guido molto. Ma non è questo. E’ come una sensazione di grande stanchezza, un sentimento di inutilità. Sì, mi sento inutile e non ho più molta voglia di fare le cose che amavo…” Il vecchio abbassò il capo. Poi lo rialzò e guardò fisso negli occhi il medico: “Ma non è solo questo, è come se talvolta avessi la sensazione di non esistere…” Il cervello di Foa analizzava rapidamente le informazioni: si trattava di un operaio che a tempo perso faceva il tassista, magari abusivo, tanto per arrotondare. E con i suoi anni… Forse una depressione dell’età involutiva? Annuì. E il vecchio continuò, come se aspettasse il permesso: “Vede, sa come siamo noi vecchi. Abbiamo bisogno di sentirci utili. Oh, per carità, siamo anche seccanti, abbiamo la nostra visione delle cose, ma in fondo abbiamo un patrimonio che vorremmo condividere. E quando questo non ci viene concesso, soffriamo molto, perché pensiamo che nessuno creda più in noi”. Tirò un sospiro. Foa era sempre più intrigato. Sì, c’era una reazione depressiva, scatenata forse da un evento personale. Il vecchio seduto di fronte a lui non sembrava infinitamente triste.
“Capisco bene”, disse, “ma mi spieghi un po’ meglio: è successo qualcosa negli ultimi giorni che ha scatenato questa sua reazione?” Il vecchio scosse il capo.
“Sì: una questione per così dire professionale. Mi è arrivata una lettera di commissione – sa, io sono un operaio che vende direttamente i propri prodotti e sono sempre stato molto efficiente. Ma stavolta qualcuno mi ha chiesto un prodotto che altri mi hanno impedito di consegnare. Quindi non ho potuto soddisfare quella richiesta. E questo, come vede, ha avuto i suoi effetti…” Fissò dritto in faccia Foa. “Cosa devo fare, dottore?” Era come se quelle parole avessero evocato qualcosa in Alberto. Lui stesso non sapeva definirla. Le parole gli uscirono di bocca assolutamente partecipi, piene di solidarietà.
“Ma scusi, ma questa è una prassi inadeguata, intollerabile. Se qualcuno le ha chiesto qualcosa, lei ha il diritto e il dovere di recapitarlo. Nessuno può impedirle di farlo…” E aggiunse: “E’ ingiusto!”. Il vecchio lo guardò dritto negli occhi e sorrise, con un sorriso dolce e penetrante.
“Sì, dottore, credo che abbia ragione. Cosa mi consiglia?”. Foa si aspettava quella domanda. Di norma era abituato a riflettere molto, prima di lasciarsi andare a un consiglio, ma di nuovo le parole uscirono con una fluidità e una determinazione insolite.
“Credo che lei debba consegnare comunque quello che le è stato ordinato. Ne ha tutto il diritto”. E aggiunse, di cuore: “Non può lasciarsi abbattere da simili problemi, perché credo proprio che il suo malessere sia dovuto a questa sensazione di impotenza, che è comunque ingiustificata, inadeguata. Lei non può accettare di subire un sopruso. Sia se stesso, e questo l’aiuterà più di qualsiasi farmaco…” Percepì nella penombra della stanza un luccichio negli occhi del vecchio. Lo interpretò come gratitudine, e forse lo era.
“Dottore, lei mi è stato infinitamente utile”. Foa, annuì e sorrise, senza sussiego.
“Sono contento, se in qualche modo ho potuto aiutarla”. Il vecchio ricambiò il sorriso.
“Dottore, mi dica, qual è la sua parcella?”. Foa scosse il capo.
“Nulla. Assolutamente nulla”.
“Lei è davvero gentile”, rispose il vecchio, “e io sono in debito con lei”. Si alzò dalla poltrona. “Spero di non averla disturbata troppo”. Anche Foa si alzò. Provava una strana sensazione di vertigine, mentre guardava quell’uomo che, con gesti misurati, si rimetteva il colbacco e si stringeva nel suo cappotto grigio. Aveva uno sguardo sereno e sorrideva. Strinse la mano che il vecchio gli tendeva. Era forte, callosa, la mano di un operaio e di un tassista.
“Lei”, disse il vecchio, “è davvero quel bravo medico che mi hanno descritto. Anzi, aspetti un attimo…”. Infilò la mano all’interno del cappottone e ne trasse una busta spiegazzata. “Penso le farà piacere conoscere la persona che più di tutte mi ha parlato bene di lei. Anzi sono sicuro che le farà piacere”. Foa sorrise, prese la busta e la appoggiò sul tavolo basso dell’anticamera, poi lo accompagnò all’uscio. Il vecchio fece un nuovo, ossequioso cenno del capo e uscì. “Buonanotte”, disse, “e Buon Natale…”.
“Buon Natale a lei…” Foa socchiuse educatamente la porta. Buon Natale… aveva detto Buon Natale? Riaprì l’uscio impetuosamente; il vecchio aveva già svoltato nella rampa successiva. “Mi scusi”, gli urlò dietro, “ma lei come si chiama?”. Il vecchio si affacciò dalla ringhiera delle scale.
“Nicola, dottore”, scandì, “mi chiamo Nicola… Buon Natale e grazie ancora”.
Foa chiuse la porta, ripensando alla sua strana esperienza. Tornò alla scrivania. Guardò l’orologio: erano ancora le 22,45. Si sarà fermato, pensò. Ad occhio e croce il colloquio era durato non meno di quindici, venti minuti. Fu in quell’istante che si ricordò della lettera che gli aveva consegnato il vecchio. Andò a recuperarla dal tavolo in anticamera. Era una busta comune, ma la cosa più sorprendente era l’indirizzo, vergato con calligrafia palesemente infantile: A Babbo Natale, Polo Nord. Una calligrafia che gli era stranamente familiare. Le dita di Foa armeggiarono febbrilmente sulla busta ed estrassero un foglio di quaderno di terza elementare. C’era scritto: “Caro Babbo Natale, mi chiamo Giorgio Foa, e non so se riceverai questa lettera, perché papà dice che non esisti. Ma se esisti voglio per regalo che convinci il mio papà che esisti, e che lui impari a raccontarmi storie e che lui stia di più con me. Il mio papà è un medico tanto bravo, ed anche tanto buono e cura tante persone malate, ma non crede nelle storie e dice che Babbo Natale è una stupidaggine. Ciao”.
Per quanto tempo Alberto rimase a rigirare tra le dita quel foglio a righe? Cosa stava succedendo? L’idea che un impostore gli avesse fatto uno scherzo di pessimo gusto era ovvia. Babbo Natale, Polo Nord, mi chiamo Giorgio Foa… Sì, era certamente un’impostura. Ma mentre una parte della sua mente continuava a ripeterselo, il dottor Foa aveva chiuso la porta dello studio ed era salito in macchina. Girò la chiave nel cruscotto. Un tassista, un operaio, un povero vecchio forse con una depressione involutiva…
Mentre posteggiava, confuso, davanti casa, si accorse della neve che iniziava a fioccare. L’orologio digitale sul cruscotto dell’auto segnava le 23,50. Tutto questo tempo… Aprì l’uscio. La casa era al buio. Clara dormiva. Nella sua camera, Giorgio stava col naso appiccicato al vetro della finestra socchiusa.
Quando lo vide entrare si voltò di scatto, con un’espressione di gioia che gli mancava da anni. Gli corse incontro e lo abbracciò, e lui ricambiò l’abbraccio con un’intensità che non conosceva.
“Giorgio”, disse, “così prendi freddo…”
“Papà, sapessi cosa è successo…” Lui annuì frettoloso e si avvicinò alla finestra per chiuderla.
Fu in quel momento che vide un biglietto appoggiato sul davanzale, candido come la neve, sul quale con calligrafia fine erano vergate le parole: “Come vede, ho seguito il Suo consiglio. Ho consegnato quanto mi era stato chiesto. Grazie dottore”. E gli parve d’intravedere, là fuori, stagliata sul cielo cupo, una slitta trainata da renne, guidata da un anziano signore, con la voce più rassicurante che avesse mai sentito e lo sguardo più profondo che avesse mai visto. Giorgio tornò ad abbracciarlo.
“Papà, sapessi cos’è successo…” Alberto lo strinse forte, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime.
“Sì, lo so, figliolo”, rispose. “Buon Natale…”.
Giovanni Iannuzzo