Tra qualche giorno si conclude il 2024, un anno ricco di ricorrenze, tra cui il centenario dalla nascita di Danilo Dolci, sociologo, poeta ed educatore italiano, noto, in particolar modo, per la sua militanza non violenta in Sicilia negli anni ’50 e ’60 contro ogni forma di ingiustizia. Molti lo accostano alla figura di don Lorenzo Milani o a Gandhi. La sua storia, conosciuta a livello internazionale, recentemente è stata riproposta dallo scrittore favarese Giuseppe Maurizio Piscopo che ne ha realizzato un libro accurato, con un ampio apparato fotografico e tante testimonianze inedite di chi lo ha conosciuto e ha lavorato con lui. Il volume, edito Ottavio Navarra, ha un titolo provocatorio: “Ci hanno nascosto Danilo Dolci”, che sembrerebbe essere una dichiarazione programmatica da parte dell’autore sull’importanza di far conoscere, soprattutto alle nuove generazioni, un grande educatore del Novecento, che ha usato il pensiero come arma civile, ma che, allo stesso tempo, è stato per molti anni dimenticato ed escluso dai programmi scolastici. Difatti – come sostiene lo stesso autore – quanti ancora oggi, tra docenti ed educatori italiani, conoscono o ripropongono nelle scuole la figura di Danilo Dolci?
Nato a Sesana (Trieste) il 28 giugno 1924, Dolci, in tempi di guerra, rifiutato il richiamo militare, fu arrestato a Genova nel 1943, ma riuscì a scappare e a passare il fronte presso L’Aquila. Decisive per la sua formazione furono l’esperienza acquisita presso la comunità di Nomadelfia di don Zeno, e l’accostarsi al pensiero di Gandhi. Dall’inizio degli anni Cinquanta si stabilisce in una delle zone più povere della Sicilia occidentale (Trappeto prima, Partinico dopo), dove intraprende un’intensa attività di apostolato laico, di assistenza sociale, di denuncia delle condizioni di abbandono e di sottosviluppo di quelle popolazioni e delle prevaricazioni della mafia. Tra le sue battaglie non violente: la casa per raccogliere i piccoli orfani più disagiati (il Borgo di Dio), il progetto per l’utilizzazione delle acque dello Jato, i digiuni-protesta, la campagna per la diga sul Belìce. Ne seguirono campagne di stampa di diffamazione nei suoi confronti, denunce e infine l’arresto, nel 1956, per “occupazione abusiva di terreno pubblico e privato”: lo scrittore, infatti, preannunciandolo con largo anticipo alle autorità, aveva guidato centinaia di disoccupati a rimuovere il fango della “trazzera”, una strada abbandonata presso Partinico, intendendo così simboleggiare la volontà dei senza lavoro di lavorare per essere inseriti nella società civile. Non a caso i dimostranti presero a loro manifesto l’art. 4 della Costituzione da cui verrà pubblicato Processo all’art. 4, un libro che raccoglie fatti e atti processuali. Non pochi guai con la giustizia procurò a Dolci pure la sua Inchiesta a Palermo (1957), che ebbe grosse ripercussioni anche all’estero. Unanimi gli apprezzamenti d’oltralpe allo scrittore triestino: il premio Lenin per la pace nell’Unione Sovietica (1957); la chiamata dalla Gran Bretagna e dall’India per partecipare alla conferenza dell’“Associazione Internazionale degli oppositori della guerra” (1960); la candidatura al premio Nobel per la pace da parte di 127 rappresentanti dell’Assemblea nazionale svedese (1965); l’illustrazione a Stoccolma del progetto per creare “nuovi centri educativi”. Della sua vasta produzione ricordiamo circa ottanta libri tra cui: Spreco (1960), Racconti siciliani (1963); Chi gioca solo (1966); Il limone lunare (1970); Chissà se i pesci piangono (1973); Non esiste il silenzio (1974); Esperienze e riflessioni (1974). Ispirazione religiosa e sociale sono fuse nella raccolta di poesia: Voci dalla città di Dio (1951); Poesie (1956); Creatura di creature (1979); Palpitare di nessi (1985). Nel 1970 fu fondata da Danilo Dolci la prima Radio libera in Italia per denunciare la mancata ricostruzione del Belice. In quegli anni Danilo Dolci aveva fatto riflettere sulle condizioni della Sicilia attuando una rivoluzione silenziosa e non violenta contro la mafia, l’ingiustizia, l’emarginazione raccogliendo tante testimonianze tra i più poveri e afflitti. Senz’altro, il sociologo aveva attratto in Sicilia uomini di cultura come Vittorio Gassman, Carlo Levi, Elio Vittorini, Leonardo Sciascia, Ignazio Silone e tanti altri intellettuali di primo piano.
Come racconta il fraterno amico e collaboratore Pino Lombardo, in quegli anni “furono tanti gli intellettuali che si trasferirono in Sicilia per incontrare Danilo Dolci. Partinico e Trappeto erano diventati il centro del mondo, di tutte le persone sensibili che si riconoscevano nella cultura, che credevano nello sviluppo e che il cambiamento avvenisse dando lavoro, facendo le scuole”. Il professore Giuseppe Carta, Ordinario di Urbanistica alla Facoltà di Architettura di Palermo e amico di Danilo Dolci, racconta che “andava con lui ogni giorno in macchina nel Belìce e in tutti gli altri paesi siciliani, girando soprattutto nelle campagne, nelle periferie a vedere quello che c’era e a parlare con la gente”. Secondo lo stesso Carta oggi “Danilo Dolci è molto conosciuto in alcune università del nord e all’estero ma tanti giovani in Sicilia non lo conoscono, come se ce l’avessero nascosto”.
Nel centenario dalla sua nascita, dunque, da tante scuole siciliane è partita un’ondata di entusiasmo per la riscoperta della figura di Danilo Dolci, un profeta della non violenza che ha segnato il Novecento, in quella parte dimenticata della Sicilia. Tra le testimonianze che provengono dal mondo della scuola anche quella degli studenti di due classi quinte dell’Istituto superiore Enrico Medi di Palermo che, con il loro professore di lettere, Marco Fragale, hanno avuto modo di leggere, nell’ora di Educazione Civica, un saggio-inchiesta di Danilo Dolci del 1955, Banditi a Partinico, che documenta la tragica condizione di miseria e analfabetismo in Sicilia, e fa capire che il consenso sociale alla mafia deriva da dove c’è ignoranza in contesti in cui è lo Stato ad essere considerato latitante.
Partendo da alcune considerazioni sulle denunce di Dolci e, in particola modo, sul diritto al lavoro, sancito dall’articolo 4 della Costituzione italiana, gli studenti del Medi hanno, per prima cosa, condotto un sondaggio su un campione di sei classi del loro istituto, constatando che solo tre alunni conoscevano Danilo Dolci, associato frequentemente al nome di una scuola. In seguito, le loro riflessioni sono venute fuori da un elaborato che spiega il perché il sociologo triestino, attivo in Sicilia, debba essere conosciuto oggi nelle scuole italiane:
“Danilo Dolci deve essere divulgato nelle scuole italiane perché una persona che ha combattuto per i diritti dei più poveri come Gandhi, deve essere ricordato allo stesso modo” (Andrea Mangiapane, 5 B IMP); “deve essere studiato per fornire agli studenti un esempio concreto di come un individuo possa fare la differenza, anche in contesti difficili (Salvatore Fucilieri, 5 B IMP); “Danilo Dolci aiuta a comprendere meglio i problemi sociali, a promuovere valori fondamentali come la pace, la solidarietà, la giustizia” (Marco Tiscione, 5 B IMP); “Danilo Dolci rappresenta un esempio di impegno civile, educativo e sociale che unisce valori fondamentali della Costituzione italiana” (Felice Novara, 5 B IMP).
Gli studenti poi, coadiuvati dal loro professore, sono scesi direttamente in campo diventando attivi protagonisti in un progetto di cittadinanza attiva per la realizzazione di un cortometraggio che si propone di ricostruire l’origine e l’evoluzione del fenomeno mafioso in Sicilia partendo proprio dal dominio del latifondo e dalle ingiustizie subite da quei poveri contadini che, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, preferirono emigrare in America per scappare dalla miseria. Un video su una ricostruzione storica che arriva fino ai giorni nostri in cui gli studenti, come tanti giornalisti, hanno scelto un luogo significativo della città di Palermo per raccontare la storia di una vittima o di un evento di mafia. Infine, il 29 novembre di quest’anno, hanno avuto la possibilità di visitare il Tribunale di Palermo e gli uffici di Falcone e Borsellino, concludendo la loro giornata nella chiesa di San Domenico per lasciare i loro pensieri sulla tomba di Giovanni Falcone.
“Il cortometraggio rappresenta per me una delle esperienze più toccanti della mia vita” scrive Samuel Caruso, “mi ha insegnato che nella vita non bisogna lasciar scivolare via il male ma combatterlo al fine di ritrovare del bene in futuro” Di certo lui, come gli altri compagni, da questa esperienza ha tratto una grande lezione di vita che può essere sintetizzata in un’unica frase: «Alla fine della nostra vita non conterà quanto abbiamo ricevuto ma quanto abbiamo donato».
Marco Fragale