Così sia la luce… artificiale: fotobiologia ed effetti sulla salute

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L’illuminazione è uno degli elementi più «scontati» del nostro ambiente, di cui si è soliti sottolineare l’aspetto estetico e quello propriamente funzionale. Un ambiente deve essere illuminato, cioè, in un modo o in un altro a seconda delle sue funzioni, del suo aspetto, della sua utilizzazione. Nel far questo non si riflette abitualmente sul fatto che l’illuminazione ha una sua importanza determinante anche per l’organismo e che quindi può diventare un fattore più o meno positivo per la salute. A queste conclusioni è giunta la «fotobiologia», la scienza che studia gli effetti della luce sulle funzioni vitali. La luce, infatti, condiziona da sempre i ritmi biologici fondamentali dell’uomo, per esempio con l’alternarsi del giorno e della notte che ha oltretutto rappresentato un riferimento costante per le attività umane; per secoli, infatti, i nostri antenati hanno lavorato alla luce del giorno e dormito quando il sole calava. Con l’evoluzione della civiltà, questi ritmi arcaici sono cambiati e ci si è trovati di fronte all’esigenza di creare un giorno «artificiale», delle luci, cioè, che sostituissero quella del sole. Naturalmente, provocando tutta una serie di effetti sull’organismo. Che delle influenze ci siano è sicuro. La luce che penetra nell’organismo attraverso l’occhio non solo consente la visione, ma influenza anche profondamente l’attività biochimica del corpo, modificandone funzioni fondamentali come quella ormonale, e questo si ripercuote sullo stato di salute sia fisica, sia psichica. È proprio in base a questa constatazione che, ormai da diversi anni, in diverse nazioni sono nati dei comitati per lo studio degli effetti della luce artificiale sull’organismo. È stata infatti avanzata l’ipotesi legittima che la luce «sbagliata» possa essere un fattore inquinante in grado di causare malattie, un po’ come si è visto per i grassi nell’alimentazione, il fumo o lo smog. Si sa, l’uomo è stato programmato per vivere sotto la luce del sole e per millenni tutti i fattori biologici sensibili alla luce si sono adattati a questa energia naturale che oggi, a ben guardare, costituisce solo una minima parte dell’illuminazione dei nostri ambienti.

Le regole naturali non possono essere rimescolate e ridefinite a casaccio: ecco perché anche l’illuminazione va «pensata» come ingrediente del nostro benessere.

Gli effetti biologici della luce non sono dovuti soltanto al suo spettro visibile, bensì anche alle radiazioni ultraviolette e a quelle infrarosse, oltre a una serie non ancora del tutto nota di frequenze che vanno dalle microonde (quelle utilizzate dai radar, per intenderci) alle radiazioni X e ad altre ancora, tutte ugualmente implicate nei meccanismi descritti dalla fisica. Si tratta, insomma, di tutto un insieme di potenti energie in grado di produrre notevoli effetti biologici. Basta pensare agli effetti sulle pelle della luce solare: l’esposizione dell’epidermide ai raggi ultravioletti può, se effettuata correttamente, dare un colore mielato, altrimenti può provocare fastidiosi eritemi, arrossamenti più o meno diffusi, sino alle vere e proprie ustioni. La luce solare è poi indispensabile per il metabolismo della vitamina D e del calcio; nello stesso tempo ha una funzione sterilizzatrice, poiché risulta letale per molti pericolosi microrganismi. Esistono poi degli effetti più specifici, come quelli sul sistema endocrino e sulla secrezione ormonale. I ritmi biologici, insomma, sono conformati a quelli solari: basta pensare a quante volte si urina la notte rispetto al giorno. Alcuni esperimenti hanno dimostrato che, anche in persone che vivono nel sottosuolo, i cicli urinari possono venire abbreviati o allungati a seconda dell’intensità della luce. L’esposizione alla luce solare può anche influenzare l’ovulazione e la durata del ciclo mestruale, mentre, d’altro canto, certe fasi del comportamento animale coincidono con certe stagioni e sono strettamente dipendenti dall’illuminazione; infatti la luce è energia elettromagnetica, e oggi si presta molta attenzione alle influenze dei campi elettromagnetici sulle funzioni vitali. È chiaro che stiamo parlando della luce solare, alla quale siamo perfettamente adattati come tutti gli esseri viventi. La luce artificiale è invece sostanzialmente diversa, composta com’è da una miscela di lunghezze d’onda spesso assai diverse da quelle naturali. Questo è, d’altra parte, giustificabile: la luce artificiale è stata inventata dall’uomo con una sola finalità, quella di consentire di vedere bene quando manca la luce del sole. Bisogna però tenere conto anche degli altri effetti della luce sull’organismo; di questo si dovrebbe occupare la tecnologia, impiegando criteri autenticamente ecologici nella costruzione delle abitazioni. Una illuminazione ideale, infatti, deve essere il più possibile simile a quella naturale, imitando insomma lo spettro. Le nostre abituali fonti di energia artificiale, invece, mancano di parti sostanziali, o, se queste sono presenti, lo sono in quantità sbagliate. Raggiungere l’obiettivo di una illuminazione ecologica non è comunque difficile: basta impiegare le tecniche sperimentate da tempo e seguire i consigli della fotobiologia.

Illuminare al naturale

Il modo migliore di illuminare un ambiente è quello di permettere che la luce solare entri il più possibile all’interno della casa. Anche se oggi la nostra vita è ritmata su «frequenze» tali da imporre un allungamento delle ore del giorno, si può ugualmente fruire per il massimo tempo possibile di fonti ecologiche di illuminazione. Stranamente, uno degli ostacoli alla corretta penetrazione della luce in un ambiente chiuso è rappresentato dal vetro: esso trasmette infatti la porzione visibile dello spettro solare, ma, mentre lascia passare abbastanza bene l’infrarosso, non fa altrettanto con l’ultravioletto. Qualcuno in passato ha anche realizzato del vetro particolare, in grado di lasciare filtrare in giusta quantità la luce ultravioletta, ma l’iniziativa non ha funzionato economicamente.

Una soluzione fruibile potrebbe essere quella dei fogli di resina acrilica, che consentono il passaggio dell’ultravioletto. Questo materiale presenta vantaggi e inconvenienti rispetto al vetro: si graffia e si deteriora più facilmente, ma, in compenso, è sostanzialmente infrangibile. In alternativa si può utilizzare del vetro sottile. Vetri ad alto spessore sono assolutamente inadatti allo scopo. Per ottenere una illuminazione il più possibile ecologica in un ambiente sono sempre necessarie ampie finestre (con vetri molto sottili) o vetrate, orientate in maniera tale da ricevere il massimo di luce. L’uso opportuno di grandi specchi potrebbe amplificare la luminosità e consente un’utilizzazione prolungata della luce solare. È in questi ambienti che andrebbe svolta l’attività lavorativa diurna.

Le comuni lampadine, abitualmente usate nell’illuminazione, sono «a incandescenza». È risaputo che consistono in un sottile filamento di tungsteno posto all’interno di un bulbo di vetro sigillato: la corrente elettrica che passa attraverso il filo lo rende incandescente e questo emette una luce bianco-giallastra dopo aver raggiunto temperature di circa 2.500 gradi. Proprio per questo motivo, una luce così prodotta si discosta da quella naturale.

Gli esperti di “fotobiologia” – studiosi, cioè degli effetti biologici della luce – spiegano questo effetto utilizzando il concetto di «temperatura di colore»: la luce diurna ha, cioè, un «colore» diverso, esattamente quello che sarebbe emesso da una lampadina se il filo di tungsteno fosse portato a una temperatura di circa 6000 gradi, il che è impossibile. Poiché le misurazioni in questo campo vengono effettuate in gradi Kelvin (°K) – una scala di misurazione che comincia a -273 gradi centigradi anziché a zero – la luce ideale dovrebbe avere una temperatura di colore di circa 5000 °K. una luce di questo tipo sarebbe molto simile a quella naturale, avrebbe uno spettro completo e sarebbe soddisfacente dal punto di vista fisiologico. Nell’illuminare un ambiente con normali lampadine a incandescenza non è possibile raggiungere questo obiettivo. Si può invece dipingere il bulbo di vetro con un blu chiaro: ciò innalza la temperatura di colore, attenua la luce giallastra e la adegua in qualche modo alla luce diurna. In commercio esistono anche le cosiddette lampadine a luce diurna che, pur dando un effetto diverso dalla luce solare, sono sicuramente più vicine allo spettro solare.

Luci ecologiche … artificiali

Molto comuni sono poi le lampade costituite da un tubo di vetro che contiene del gas e da due elettrodi posti alle sue estremità. La corrente alimenta gli elettrodi che ionizzano gli atomi del gas, liberando elettroni: dalla collisione tra ioni, elettroni e atomi di gas deriva energia sotto forma di radiazione che sarà luce visibile e ultravioletta. Le energie ultraviolette molto forti vengono assorbite da una miscela di fosfori in polvere che ricopre l’interno del tubo di vetro che diventa, quindi, fluorescente. Alcune di queste lampade a fluorescenza, comunissime, contengono anche una componente a fosforo nero che serve a generare una particolare radiazione ultravioletta che è presente nella luce diurna. Il risultato è un effetto simile all’illuminazione naturale. Queste lampade presentano però due inconvenienti fondamentali: hanno una temperatura di colore ancora bassa rispetto a quella solare (4000 contro 5500 °K) ed emettono ancora meno infrarosso delle comuni lampade a incandescenza.

I tipi di lampada ideali, comunque, sono quelli che contengono gas xenon: si tratta della luce artificiale più vicina a quella naturale, con una temperatura di colore che arriva sino a 5600°K, praticamente ideale. È il tipo di lampada, per intenderci, che viene usata come proiettore negli stadi. Nell’ex URSS venivano utilizzate per ottenere una illuminazione ecologica nelle fabbriche e nei laboratori, con incrementi consistenti della produttività. Non da moltissimo tempo una ottimale fonte di illuminazione è, comunque quella fornita dai LED, ottimali, con l’unico inconveniente del prezzo, ancora notevole. Buoni risultati si possono ottenere anche con le lampade che contengono all’interno gas a pressione elevata. Abitualmente, per l’illuminazione degli ambienti si utilizza corrente alternata: ciò significa che la scarica elettrica si arresta e riparte un centinaio di volte al secondo, cosicché la luce «sfarfalla» con enorme rapidità. Se il tubo fluorescente è nuovo questo fenomeno non si nota, ma molte persone, proprio a causa di tale effetto, trovano fastidiosa la luce fluorescente che, è bene sottolinearlo, può anche causare emicranie e altri disturbi psicofisici. Anche se si tratta di ipotesi, conviene porsi al riparo utilizzando la corrente continua che, eliminando qualunque interruzione o inversione di corrente, annulla il fenomeno dello sfarfallamento. Altro probabile problema potrebbe essere costituito dalla presumibile emissione di raggi X dalle lampade fluorescenti. Non si sa ancora tutto su questo fenomeno descritto da alcuni studiosi; in ogni caso, sembra che, per ovviare a qualsiasi eventuale inconveniente, sia sufficiente avvolgere in carta stagnola le estremità del tubo fluorescente, specialmente di quelli molto lunghi.

Gli studi sugli effetti biologici e psicologici dell’illuminazione artificiale vanno sicuramente proseguiti. Ciascuno di noi ha già verificato per esperienza il senso di benessere o di fastidio che si prova in certi ambienti a seconda della loro illuminazione. L’irritabilità, il nervosismo, il mal di testa e tanti altri piccoli disturbi possono forse dipendere dal tipo di luce utilizzata. E proprio perché la luce è parte integrante del nostro habitat, creare un’illuminazione il più possibile naturale può essere importante per favorire «ecologicamente» il nostro benessere psicofisico.

Giovanni Iannuzzo

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