Autrice del libro “I volti della distanza” (Edizioni Arianna, 2023), laureata in Filosofia, vive a Palermo, dove insegna, in qualità di docente specializzata su sostegno, in una scuola secondaria di II grado. Con gentilezza e disponibilità, Cristina Antronaco ci ha concesso un’intervista esclusiva, aprendo il suo cuore e svelando i segreti che hanno dato vita al suo romanzo. Attraverso le sue parole, abbiamo compreso come la scrittura sia stata per lei un modo per elaborare il dolore, un atto di catarsi che ha trasformato il suo vissuto in un’opera letteraria. “È stata una presa di coscienza,” ci ha confidato, “un modo per dare voce a tante donne che portano silenziosamente il fardello di un’esperienza di dolore universale”.
“I volti della distanza” è un romanzo che affonda le sue radici in una storia profondamente personale. Un’esperienza intima, delicata, che ha scelto di condividere con i lettori. Un atto di coraggio, senza dubbio, ma anche un dono prezioso per chi si riconoscerà nelle sue parole. Cosa l’ha spinta a trasformare il suo vissuto in un’opera letteraria? È stata, tra le altre cose, una sorta di catarsi, un modo per elaborare il dolore e trovare una nuova forma di espressione?
Grazie per questa generosa opportunità. Quello che lei definisce atto di coraggio per me ha rappresentato, piuttosto, una presa di coscienza che sempre più lucidamente affiorava in me con la forza di un appello a cui non potevo più sottrarmi. La consapevolezza di vivere una condizione esistenziale-limite, di quelle che determinano una frattura tra un prima e un dopo e di cui moltissime donne, più di quanto si possa comunemente pensare, ne portano silenziosamente addosso il fardello e i segni, è stata una fortissima spinta a voler scriverne perché il taciuto, il non detto che, spesso riscontravo in moltissime testimonianze non cadessero in un eterno oblio ma avessero un luogo proprio, legittimo per venire alla luce, dove essere riconosciuti, affidati alle parole che sono carne e ossa e non si limitano a nominare la realtà ma la costruiscono, la definiscono ed allo stesso tempo compiono il miracolo della trasformazione perché forniscono nuovi significati, nuovi ponti e orizzonti di senso smarriti. Certamente ho attinto tanto dal mio vissuto personale che non è stato mera cronaca che ha ripercorso fedelmente i fatti avvenuti ma la pervicace volontà di restituire dignità e visibilità ad un’esperienza di dolore che è universale, seppur attraverso la lente del particolare, con l’intento di denunciare quell’immaginario collettivo che ergendosi a giudice inquisitore sottovalutata e minimizza come se ci si potesse riferire a gerarchie e classifiche di dolore di serie A e serie B. E in qualche modo sono approdata ad una forma di catarsi. Quando si avverte un’energia che sta per straripare e rompere gli argini è necessario fare ricorso a delle dighe e questo sono state le parole per me, uno strumento salvifico di continenza perché insieme, legate le une alle altre, sono divenute narrazione e dunque possibilità di ritessere le trame della vita quando queste hanno subito una smagliatura perché proprio quando il dolore si fa racconto è già un primo sintomo di sottrazione alla suo piena, germoglio che rompe la scorza del seme, timido inizio di fioritura nel deserto.
La distanza, nelle sue diverse forme, è un tema centrale nel romanzo. Distanza fisica, certo, quella che separa Luca e Noemi, costretti a vivere in città diverse. Ma anche distanza emotiva, quella che a volte si insinua anche nelle relazioni più solide. E, infine, distanza interiore, quella che ognuno di noi sperimenta rispetto a se stesso, ai propri desideri, alle proprie paure. Come mai ha scelto di raccontare le relazioni umane attraverso questa lente? Cosa rappresenta per lei la distanza?
Onestamente il filtro della distanza non è stato scelto consapevolmente ad hoc, a monte, come espediente letterario attraverso cui leggere le relazioni ma, semplicemente e naturalmente, è accaduto, cioè si è imposto ciclicamente nel fluire del racconto poiché riaffiorava senza che ci fosse una gestione responsabile da parte mia, come un filo rosso dipanandosi dall’inizio alla fine come se fosse un topos letterario scelto come artificio. Quindi, data la sua ricorrenza, in corso d’opera, ho deciso di utilizzarlo come chiave di lettura, come via d’accesso privilegiata che mi consentisse di passare da una dimensione fenomenica ad una noumenica, per dirla filosoficamente. Una distanza che diviene necessaria, un passaggio quasi obbligato per riappropriarsi della vicinanza e di tutto quello che prima veniva messo in discussione, come se attraverso un travaglio del negativo ci si potesse nuovamente riconoscere e riconoscersi superando quel senso di alienazione da se stessi, dagli altri e dal mondo.
La maternità, con le sue luci e le sue ombre, è un tema che attraversa tutto il romanzo. Un tema complesso, delicato, che ha saputo affrontare con grande sensibilità, mostrandone sia la gioia immensa che il dolore profondo. Cosa ha significato per lei esplorare questo aspetto così profondo e significativo della vita di una donna?
Ha detto bene, la maternità è essenzialmente qualcosa di estremamente complesso e che storicamente è stata considerata come unica declinazione possibile del femminile, quindi come destino e compimento ineluttabile per le donne; come se l’essere donna dovesse coincidere esattamente con l’essere madre e in questa corrispondenza si giocasse la cifra di senso e di realizzazione della persona. Questo retaggio culturale, oggi, sicuramente meno di ieri, continua, però, ad insinuarsi e a serpeggiare in una buona fetta della popolazione. Dal mio punto di vista la maternità l’ho vissuta come esito di una scelta fortemente voluta, ponderata e condivisa, maturata in un momento della mia vita in cui ho avuto certezza, o per lo meno mi sono illusa, che ci fossero tutte quelle condizioni minime materiali ed affettive che potessero accogliere una nuova vita per offrirle il meglio. Perché come dice Simone de Beauvoir i figli sono “un richiamo alla responsabilità più pura, un dovere sacro che trascende l’ego”. Sono i fiori più generosi dell’amore vero e incondizionato, germogliano dalla libertà e non dall’obbligo….Sono individui unici, portatori della loro stessa essenza, e spetta a noi la nobile missione di guidarli affinché siano felici, consapevoli e liberi.” Ammetto, tuttavia, che la tentazione egoistica di considerare un figlio anche come prolungamento ed estensione della propria esistenza c’è stata ma si è ridimensionata nella misura in cui il riconoscimento dell’alterità ha preso il posto di un’identità impossibile da replicare e comunque non funzionale per lo sviluppo libero e soggettivo della persona. L’esperienza personale e quella di tante altre donne mi insegnano oggi che la maternità occupa uno spazio idealmente infinito che abbraccia l’amore in ogni sua declinazione materiale, spirituale, morale e è non riconducibile a quello tradizionale che vede come protagonisti unicamente la madre e il suo bambino.
“I volti della distanza” è anche un romanzo sulla resilienza, sulla capacità di rialzarsi dopo una perdita, di trovare una luce nel buio. Un romanzo che ci ricorda che anche nei momenti più difficili è possibile trovare la forza di andare avanti. Cosa le ha paradossalmente insegnato, a livello personale, la storia che ha raccontato? E cosa vuole comunicare ai lettori che hanno vissuto o stanno vivendo esperienze simili?
Da amante della parola mi soffermo un attimo a riflettere sul fatto che ultimamente il termine resilienza risulta molto inflazionato, quasi abusato; nato in un settore di impiego specifico come quello dell’agricoltura si è poi esteso ad altri ambiti per indicare infine in ambito umano questa capacità di resistere, nonostante tutto, e in questo nonostante tutto è racchiuso l’universo di difficoltà rispetto alle quali si gioca la possibilità di farcela, di non soccombere, di non lasciare che la vita ci trascina alla deriva. Ciò che insegna, per essere tale “segna”, e, tanto l’esperienza che ho attraversato, quanto la narrazione, intesa come strumento di costruzione del nuovo, di un senso capace di addomesticare un caos interiore permanente, mi hanno suggerito alcune verità, ad esempio, soltanto attraverso la riappropriazione del tempo della cura, della transigenza verso noi stessi, dell’accoglienza della nostra fragilità, come radice ontologica che ci connota nel profondo, possiamo metterci in ascolto di quella dimensione autentica che soccombe agli urti di un mondo che fila alla velocità della luce e non ammette inciampi, che rincorre promesse di eternità mutuate da maschere e non da volti e che tradisce il messaggio dell’amore puro, quello che non ha fretta, che sa aspettare, che non chiede nulla in cambio, che resta e nell’attesa resiste e ci fa riesistere perché sa che soltanto rimanendo intero potrà salvarsi e salvare, strappandoci alla morte. Il messaggio, quello forse più difficile, perché appunto prematuro, quasi ridicolo, per chi è in questo preciso momento dentro la tempesta, è il sentimento di fiducia che non deve essere smarrito, come dico nel romanzo, “In un futuro che, nonostante tutto, mi avrebbe prima o poi raggiunta e voluta nel suo corso”. Fiducia chiaramente accompagnata da quello che è stato detto prima.
Luca e Noemi, i protagonisti, sono ispirati alla sua storia personale. Una coppia che, nonostante le difficoltà, lotta per il proprio amore. Una coppia che, in qualche modo, ci somiglia, con le sue fragilità e le sue risorse. Da cosa ha tratto principalmente ispirazione nel raccontarli? Quanto si sente legata a loro?
Luca e Noemi costituiscono due universi diversi, eppure, a volte, molto simili tra loro. Il maschile e il femminile, due frecce di uno stesso arco, due approcci differenti alla vita e al modo di sentire e affrontare il dolore e in qualche modo condizionati da stereotipi di genere che impongono modalità peculiari di viverlo, questo dolore. Luca e Noemi sono indubbiamente, per molti aspetti, un concentrato delle mie proiezioni personali ma anche il frutto di tanto altro, di edulcorazioni e di sentimenti portati all’iperbole perché ritenuti funzionali alla costruzione della storia. Il primo incontro, la nascita della storia d’amore, la scelta “obbligata” di lasciare la propria terra per inseguire i propri progetti, il desiderio di vivere insieme e costruire una famiglia, per consentire che il rapporto nato e poi mantenuto a distanza vivesse di nuova linfa, sono tutti aspetti paradigmatici di una coppia qualunque, come ce ne sono tantissime, in tutto il mondo. Anche la rottura dell’equilibrio, l’evento che segna la frattura tra un prima e un dopo anche se non è sempre il lutto rappresentano un elemento fisiologico che caratterizza il ciclo di vita di ogni coppia e forse anche il modo attraverso cui loro resistono non è eccezionale, né originale rispetto ad altri. Probabilmente la loro forza e la loro caratterizzazione risiede proprio in questo, nel fatto di essere due persone comuni che nella loro individualità incarnano gli aspetti universali di ciascuno, in quanto depositari di risorse e fragilità che rivelano la loro umanità, nient’altro. Non sono eroi, per l’appunto, ma sono e restano umani accettandosi reciprocamente, rispettando i diversi modi di guardare la realtà anche se questo risulta spesso incomprensibile all’altro. Non si forzano, non c’è prevaricazione nel loro linguaggio, l’amore rimane il tessuto su cui è cucita la loro esistenza, la trama a volte salta, ma con i punti di un sentimento sempreverde le smagliature vengono risanate. Sono grata a loro perché rinnovano la consapevolezza che solo l’amore è in grado di compiere miracoli.
“I volti della distanza” è un romanzo che parla al cuore dei lettori, un romanzo che ci invita a riflettere sulle relazioni, sulla maternità, sul dolore. Qual è il messaggio più profondo che vuole trasmettere ai lettori con questo libro? Cosa si aspetta che si portino a casa dopo averlo letto?
Come dicevo prima, la fiducia nel futuro, probabilmente, quella fioca luce di speranza che si intravede è la misura che restituisce comunque la certezza che una possibilità di rinascita è accordata a tutti, anche a quei genitori che vengono definiti nei blog “A braccia vuote e cuore gonfio”. Mi piacerebbe che i lettori si portassero dietro quella consapevolezza di non essere intoccabili, che le cose accadono e possono cambiare repentinamente da un momento all’altro sia in senso positivo che negativo e che per questo dobbiamo lavorare su noi stessi, equipaggiarci per non farci trovare impreparati, costruire relazioni solide e significative che offrano un porto sicuro quando ce ne sarà bisogno. Un invito a rapportarci agli altri, ai tanti volti in punta di piedi perché dietro ad ognuno c’è una storia che non può essere ignorata e purtroppo oggi, tanto le guerre, quanto le migrazioni testimoniano questa incapacità, anzi rivelano la volontà di respingimento e negazione.
Dopo questo esordio così intenso e personale, ha altri progetti di scrittura in corso?
Scrivere è una modalità espressiva che sento congeniale al mio modo d’essere e che ho sempre sperimentato sia nelle forme della prosa che della poesia. Ad oggi, però, non sto portando avanti nessun progetto ma non lo escludo per un futuro meno prossimo!
Siamo giunti al termine di questa conversazione, ed è stato un autentico piacere immergerci nel suo universo letterario, tra passione per la scrittura e riflessioni profonde. Prima di congedarci, vorrei lasciarle uno spazio tutto suo: c’è qualcosa che le sta particolarmente a cuore e che non abbiamo toccato, un pensiero o un messaggio che desidera condividere con chi ci legge?
Desidero rinnovare il mio profondo ringraziamento per questa opportunità di ascolto in un periodo storico in cui tale pratica sembra essere ormai desueta e fastidiosa perché l’ascolto ha bisogno di tempo e quando è attivo richiede anche una sensibilità, una cura e un’attenzione crescenti. In un’era digitale in cui si è perennemente connessi da remoto ma disconnessi nelle relazioni reali, l’invito è quello di ritrovare quel sentimento di pietas verso gli altri, di appassionarsi, di ritrovarsi a leggere e a condividere esperienze perché dalla narrazione passa la costruzione della propria identità e di nuovi significati attraverso cui poter leggere e costruire la storia, le storie.
Salvina Cimino