Yari Lepre Marrani: un poliedrico intellettuale al Premio Strega Poesia 2025

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Yari Lepre Marrani, un intellettuale poliedrico, un poeta che ha saputo coniugare la rigidità della formazione giuridica con un un’esplosione di versi, un giornalista che ha fatto della cultura un mezzo per perseguire la sua missione. La sua terza silloge poetica, “I canti di un pellegrino”, è un viaggio nell’anima “un prisma che riflette le mille sfaccettature dell’esistenza”, che oggi lo vede candidato al prestigioso Premio Strega Poesia 2025.

Classe 1982, maturità classica e formazione giuridica conseguita con una laurea a pieni voti in giurisprudenza all’Università degli studi di Milano-Bicocca. Nato e cresciuto a Milano, ha sempre lavorato in questa città come Legal credit collector e consulente legale.

Vi presento Yari Lepre Marrani e la sua erudizione. Una penna raffinata che, come un pennello intinto nell’inchiostro e nello spirito, dipinge affreschi di storia e di attualità, di sentimenti e di riflessioni. Ho cercato di catturare l’essenza di questo artista straordinario, di svelare i segreti della sua anima prismatica.

La sua figura emerge come un raro esempio di intellettuale poliedrico, in cui la rigorosa formazione giuridica convive con una fervida passione per la letteratura. Come si intrecciano questi due ambiti nella sua produzione, e in che modo l’uno influenza l’altro nel suo processo creativo?

Questa domanda mi riporta a due momenti chiave della mia vita: lo studio universitario del diritto, in età adulta, e la genesi della mia passione per la lettura prima ancora che per la letteratura. Il diritto è una materia arida che lascia poco spazio all’immaginazione ma molto attraente per chi ama studiare perché lo studio e la successiva applicazione del diritto è una continua corsa all’aggiornamento, all’approfondimento degli studi passati e la conoscenza della legge, di conseguenza, non è solo una questione lavorativa o di erudizione ma costituisce un elemento imprescindibile per potersi agevolmente muoversi nella nostra società dove è fondamentale sapersi difendere e destreggiarsi tra le mille incognite cui il consorzio sociale ti pone di fronte. La letteratura, al contrario, è fantasia e piacere. Per me è stato così. Ho iniziato a leggere da adolescente sino a diventare un lettore onnivoro, capace di “divorare” ogni libro di qualsiasi genere: credo che leggere solo romanzi possa essere piacevole e arricchente ma anche limitante; leggere, invece, libri di ogni genere ti permette realmente di arrivare a quella conoscenza del mondo che la narrativa filtra attraverso una scrittura solamente creativa. Alla fine, i risultati della coltivazione di queste due sfere – quella giuridica e quella letteraria – ti permettono di raggiungere lo stesso fine: la conoscenza della società, del mondo, della vita, della bellezza, delle trappole.

Avere una formazione accademica giuridica mi ha permesso sicuramente di dare particolare attenzione alla precisione stilistica nella scrittura per produrre scritti – poetici o narrativi – che vogliono seguire la logica oltre la fantasia. Un bellissimo connubio, quello tra diritto e letteratura che però non deve diventare strumento per tarpare le ali ad uno scrittore, soprattutto ad un poeta.

Per quest’ultimo motivo, il diritto serve poco alla poesia che è e sarà sempre l’arte letteraria più elevata e struggente. Cantare in versi un crepuscolo, un cerbiatto o la memoria richiedono una grande emotività e voglia di esprimersi. In questo il diritto ha poca influenza. La poesia si affina con la pratica e se accompagnata dalla musica diventa anche uno strumento di arteterapia. In conclusione, lo studio del diritto ti permette di scrivere seguendo una certa, rigorosa attenzione ai dettagli ma non può instillarti la creatività.

La sua produzione poetica, intrisa di una palpabile affinità con il mondo della natura e di una profonda introspezione, evoca inevitabilmente la tradizione romantica. Come descriverebbe il suo temperamento artistico e quali sono le fonti di ispirazione che alimentano la sua creatività?

Il mio temperamento artistico è tutto racchiuso nella vastità dei temi e delle immagini che ho affrontato da quando coltivo la scrittura poetica: le mie ispirazioni poetiche sono diverse, molteplici, multiformi e addirittura contrastanti. Posso passare da un componimento che canta la bellezza di un temporale ad un altro che affronta in versi temi biblici o storici, sino alla poesia romantica pura che unisce il tema dell’amore con determinate vibrazioni di tempo e di suono. Ho un carattere romantico e meditativo ma anche burrascoso e tutte queste caratteristiche si riflettono nella mia scrittura poetica. Come dal titolo dell’ultima mia silloge candidata al Premio Strega Poesia 2025, “I canti di un pellegrino”, la poesia è per me un canto – non una canzone – che un viandante dolce e trascinatore recita a tutti coloro che incontra nel suo pellegrinaggio.

Un’immagine che sento affine alla mia poetica è quella di un personaggio mitologico molto amato, Orfeo, una personalità romantica ante litteram che viaggiava con la sua lira incantando natura, persone, animali. Ma l’immagine più potente è quando Orfeo scese disperato nell’Ade per riportare alla luce la sua Euridice: il grande incantatore attraversava il Regno dell’Oltretomba cantando i suoi versi accompagnato dalla lira. Gli spiriti dei defunti ascoltavano incantati, sconvolti, attoniti la voce di quell’uomo magico, disperato ma anche terribilmente romantico. Questa è l’immagine mitologica che più sento affine alla mia poesia e il romanticismo la fa da padrone. Traggo fonti di ispirazione prevalentemente da pensieri bucolici e arcadici ma, alla fin fine, tutto nasce da una scintilla del momento.

Ieri, per esempio, in pieno giorno, ho pensato di scrivere una lunga ed elaborata “Ode alla notte”, ed eravamo in pieno giorno. L’ispirazione è mutevole, mi coglie all’improvviso, talvolta provocata da stimoli esterni, altre volte da ambizioni letterarie. Un dato è costante: mi piace commuovere, amo la teatralità dei versi, il potere di affascinare e sedurre l’ascoltatore. La natura è stata e rimane certamente una delle principali fonti d’ispirazione. Ma, come anticipato, i miei orizzonti immaginifici sono vasti: la poesia più importante dei Canti di un pellegrino è un componimento che lascia poco spazio al romanticismo e affronta in pochi versi il dramma così attuale di un popolo, quello ebraico. La poesia si intitola “Israele” e definisce i figli del suo popolo come “perseguitati” e “persecutori”: nella connessione di queste due parole cerco di riassumere il significato storico del popolo israelitico tra passato (persecuzione) e presente (guerra e sterminio). La poesia “Israele” è stata anche pubblicata su “Ha Keillah”, bimestrale ebraico del Centro Studi Ebraici di Torino.

Alfonso Maria Petrosino ha definito i suoi versi ‘da pulpito’, sottolineando una carica emotiva e spirituale che sembra trascendere la pagina. Nello specifico, Petrosino scrive: “L’assertività delle frasi e il modo in cui vengono modulate sembrano quelli di una persona animata da una grande fede; e le cose dette (arcangeli, tramonti che annunciano aurore, contrizioni di peccatori) corrispondono a questa modulazione e a quest’assertività. Più che da schermo o da pagina, sono versi da pulpito”. In un’epoca dominata dal nichilismo, come interpreta questa sua capacità di evocare il sacro attraverso la parola?

Amo molto la dimensione sacrale che è insita nel nostro mondo. Le religioni, la storia delle religioni, la Bibbia con tutti i suoi contenuti meravigliosi e metafisici. E’ da questa passione collegata all’erudizione che nasce la mia tendenza a intingere di sacralità le mie poesie; talvolta lo faccio indirettamente attraverso parole o loro accostamenti che rimandano all’aldilà, a Dio, alla dimensione spirituale e finanche esoterica della vita. Petrosino ha centrato perfettamente le sfumature più profonde del mio stile poetico e lo ringrazio. Credo che esistano due dimensioni della vita: quella visibile, materiale, carnale e quella invisibile, onirica. Questa mia convinzione mi aiuta nel creare scritti e poesie dove emerge la dimensione sacrale non solo dell’uomo ma del mondo.

Una dimensione, oserei dire, più sacra che santa, perché tra i due termini c’è differenza. Dio è santo e sacro ma è un caso unico. Per evocare il sacro attraverso la parola occorre, credo, spingere il proprio intelletto all’interno di quel mondo invisibile di cui ho accennato e narrarne le vibrazioni che esso ti suscita. C’è poi la questione del lessico, dell’accostamento di determinate parole e del contenuto della poesia. Quando scrivi componimenti dedicati ad Abramo (Poesia “Sacrificio” tratta da Quel sentiero in mezzo al bosco”, Altromondo Editore, 2022) o ispirati ai cipressi e al vento che alleviano il dolore dei morti – mi riferisco ad un’altra mia poesia di carattere spirituale, “La tomba”, sempre tratta da Quel sentiero in mezzo al bosco – la dimensione sacrale e ultraterrena emerge con più immediatezza. Credo in Dio, ho fede nella sua onnipotenza e onniscienza, nella sua volontà. E’ questa fede che Petrosino ha saputo cogliere.

La sua terza silloge poetica, “I canti di un pellegrino”, rappresenta un’opera di notevole profondità e intensità emotiva, che sembra segnare un’evoluzione nel suo percorso poetico. Quali sono state le principali sfide e le maggiori soddisfazioni nel dare vita a questa raccolta?

“I canti di un pellegrino” sono figli di una meditazione maturata nel tempo, dopo un’interruzione nella scrittura poetica durata molti mesi. Ma credo che il risultato finale, culminato nella partecipazione dell’opera al Premio Strega Poesia 2025 e nell’apprezzamento da parte di diversi critici, abbia compensato i tempi di attesa. Ho scritto quattro sillogi e “I canti di un pellegrino” rappresenta una punta di diamante nel mio percorso poetico. La stesura della silloge è durata due mesi e la sfida più grande è stata quella di rivoluzionare, in qualche modo, il mio stile poetico, mantenendo al contempo molto salde le radici alla mia natura artistica classica. Mi riferisco al mio stile molto vicino al classicismo, al tardo romanticismo. L’opera è composta da poesie che affrontano stili diversi: dal componimento che segue una tradizione indubbiamente classica e arcaica, dalla poesia romantica che insegue una certa bellezza espositiva sino all’Haiku giapponese, composto da soli tre versi, in cui accosto l’atmosfera poetica ad un realismo abbastanza vicino alla corrente detta del Realismo Terminale. Ho scelto di usare meno le rime e più il dialogo poetico diretto con il protagonista, di volta in volta diverso, delle poesie, come in “Israele”, in cui mi rivolgo direttamente al popolo di Israele usando la seconda persona singolare. Ho voluto maggiormente seguire la ragione nella composizione delle ultime poesie, elaborandole meglio nello stile, seguendo meno l’impeto e l’irruenza tipici di alcuni componimenti contenuti nelle precedenti raccolte. Sono soddisfattissimo del risultato che dà ragione al titolo dell’opera: mai come ora mi sento di chiamare queste poesie come veri e propri canti elegiaci. La mia immaginazione li vede in bocca ad un errante pellegrino sempre in movimento con il mio libro sotto braccio, che apre di fronte ad un campo dorato di grano o in un’osteria o in una affascinante foresta.

La candidatura de “I canti di un pellegrino” al Premio Strega Poesia 2025 rappresenta un prestigioso riconoscimento per il suo talento. Quali emozioni ha provato nell’apprendere questa notizia e cosa significa per lei questo importante traguardo?

La candidatura della mia opera al Premio Strega Poesia 2025 è già un iniziale traguardo, un notevole passo avanti rispetto alle precedenti raccolte. Ma ora la partita è tutta da giocare. Non posso negare che miro ad un riconoscimento sempre maggiore, e se vincessi i miei sforzi artistici non sarebbero stati vani. Ringrazierei le Muse che mi hanno ispirato.

La casa editrice ha scelto la mia silloge tra decine di altre pubblicate nel corso del 2024.

E’ stato un grande onore per me. Ma, ripeto, un concorso così prestigioso merita di essere vissuto con la massima energia e voglia di farcela, due corollari della fiducia che nutro nei miei scritti. Concludo dicendo che una prima meta è stata raggiunta, ora spero di cuore che capacità e fortuna portino ad un felice compimento quest’avventura. La fortuna, purtroppo, gioca un ruolo fondamentale nelle vicende umane ma non credo sia questa la sede per spiegare cosa intendo con questo giudizio negativo sulla fortuna. Sarebbe un discorso troppo esteso.

Nella quarta di copertina de “I canti di un pellegrino” lei afferma: “Lo specchio dell’anima è un prisma dove i raggi di luce che incidono su di essa emergono da un’altra parte, con un nuovo colore. Nell’infrangersi dei sentimenti con le gioie e i tormenti della vita quotidiana, la poesia manifesta diversi colori e, come il prisma, restituisce i moti più profondi e complessi dell’anima”. E ancora, “creare è sinonimo di vivere'”. In un’epoca segnata da rapidi cambiamenti e incertezze, come si riflette questa visione prismatica dell’anima e della creazione nella sua poesia, e in che modo questa concezione può offrire spunti di riflessione e conforto ai lettori contemporanei?

L’idea dell’anima come un prisma è una metafora non solo poetica ma, credo, molto più realistica di quanto si creda. Il cervello, come le emozioni – che partono sempre dal primo – possono essere di una tale complessità da rendere l’animo umano un universo di grandissima complessità, di fronte al quale solo l’universo inteso come spazio intergalattico, in senso fisico, può stare alla pari. L’arte è figlia del cervello e delle emozioni pertanto è capace di riflettere la più grande complessità, bellezza e profondità possibili. Così l’anima dalle mille sfaccettature non può che generare creazioni dai mille volti. Il prisma rappresenta la caleidoscopica e gigantesca realtà della nostra essenza di esseri umani.

Nel momento in cui un autore mostra i diversi colori e tracce della sua anima, tali si riflettono nelle sue creazioni artistiche e i lettori possono così immedesimarsi in molti sentimenti e compartecipare di diverse idee o fantasie. Ecco che la visione prismatica dell’arte comporta la vastità delle esperienze emotive e intellettuali che il destinatario dell’arte letteraria, il lettore, può vivere leggendo. E la lettura è sempre una forma di rilassamento e conforto. Gaio Sallustio Crispo iniziò a scrivere monografie storiografiche anche come rifugio dalle desolazioni della vita.

La sua collaborazione con testate prestigiose come “L’Avanti”, “Il Pensiero Mazziniano”, “L’Occidentale” e molte altre, spaziando dalla divulgazione storica alla critica letteraria e alla politica contemporanea, testimonia un impegno culturale e sociale di grande rilievo. In un’epoca in cui l’informazione è spesso frammentata e superficiale, quale ritiene sia la sua missione come giornalista culturale dalle intense effusioni poetico letterarie, e quali strategie adotta per continuare a offrire un contributo significativo nel panorama mediatico attuale?

A questa domanda rispondo inserendo subito una mia idea: il giornalismo culturale, la divulgazione storica e tutto ciò che attiene all’informazione politica o geopolitica non devono essere soggetti ad intrusioni di natura artistica. Lo dico perché tratto giornalisticamente e culturalmente argomenti molto pratici, attuali e storici che richiedono uno studio attento ed una ancor più attenta esposizione. In questa attività, la mia missione se così possiamo chiamarla è quella di esprimere sempre perentoriamente e senza compromessi le mie idee, riflessioni, anche in un’ottica di analisi obiettiva dei temi trattati. Ho iniziato la mia attività di giornalista culturale spinto da un prepotente bisogno di esprimere, con brevi saggi o articoli, il mio punto di vista sull’attualità politica attraverso il prezioso contributo degli insegnamenti della Storia recente e remota. Ho preso atto che stiamo vivendo un periodo di grandissimi e velocissimi cambiamenti, un periodo dove può accadere tutto e il contrario di tutto: un periodo tra i più complessi e tormentati della storia. La solitudine interiore degli uomini si sposa con eventi politici e geopolitici delicatissimi, tali da portare gli attuali equilibri storici verso orizzonti che potrebbero cambiare i destini dell’umanità, come avvenuto in altre epoche “calde”. E’ per questo che ho deciso di far sentire la mia voce attraverso gli scritti culturali. Sono un collaboratore freelance di molti giornali. Sicuramente l’Avanti!, il glorioso Avanti!, ha un ruolo particolare perché dà la possibilità di esprimersi senza tante remore, restrizioni o censure. Ma essendo anche un profondo studioso della Storia, non posso non esprimere la mia simpatia per il quadrimestrale dell’AMI (Associazione Mazziniana Italiana), il “Pensiero Mazziniano”, dove i contributi di carattere storico sono i benvenuti. E’ una rivista di nicchia ma proviene, come l’Avanti!, da una lunga tradizione repubblicana che affonda le sue radici nel secondo dopoguerra.

La strategia che utilizzo come giornalista culturale è quella di non usare mezzi termini ma andare dritto all’obiettivo di riflessione che intendo trasmettere al lettore. Per questo, inserisco molti cenni storici nei miei articoli, paragoni tra il passato e il presente, episodi della storia passata che possono fornire insegnamenti ai contemporanei. Sono d’accordo con Cicerone il quale ha affermato che la Storia è Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis. Raccontare il passato per trarne insegnamenti e rimodellare presente e futuro. Poi ci sono ovviamente le sfide attuali e occorre essere coraggiosi, non solo nella scrittura anche se è già un buon inizio.

Salvina Cimino

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