A Montemaggiore Belsito, il 19 marzo non è un giorno qualsiasi. È un giorno che profuma di miele e sesamo, che riecheggia di preghiere e di voci allegre, un giorno in cui il passato e il presente si incontrano lungo le tavolate imbandite, in un rito che si ripete da secoli. La festa di San Giuseppe è il cuore pulsante di questa piccola comunità siciliana, un evento che mescola religiosità, cultura e convivialità in un equilibrio perfetto, fatto di gesti antichi e di sapori tramandati con amore.
La tradizione di celebrare San Giuseppe sposo di Maria, il 19 marzo, e San Giuseppe lavoratore, il 1° maggio, risale a tempi lontani, quando il bisogno di protezione e di grazia spingeva le famiglie di Montemaggiore a fare voto al patriarca. Come segno di devozione e ringraziamento, venivano preparati pranzi con le prelibatezze della cucina locale, offerti prima ai bambini e ai ragazzi – i virgineddi – che impersonano la Sacra Famiglia, e poi agli adulti. La tradizione si è consolidata nel tempo, sopravvivendo ai cambiamenti storici e sociali, e ancora oggi continua con la stessa intensità e lo stesso spirito di condivisione.
I preparativi: mani esperte e ricette antiche
Già molti mesi prima della festa, le cucine di Montemaggiore iniziano a risvegliarsi. Le donne del paese, vere custodi della tradizione culinaria, si riuniscono nelle case per preparare le pietanze che renderanno il banchetto degno di San Giuseppe. Tra le ricette più antiche ci sono i cucciddati, grandi ciambelle di pasta dal peso di sette o otto chili ciascuna, destinate ai tre poveri che rappresentano simbolicamente Gesù, Giuseppe e Maria. Impastare un cucciddatu richiede forza e dedizione: le mani affondano nella pasta morbida, le dita modellano con cura la forma circolare, mentre il profumo della farina mescolata con l’acqua e il lievito riempie la stanza. È un lavoro che parla di sacrificio, di promessa e di fede.
Accanto ai cucciddati, non possono mancare le sfince di San Giuseppe, dolci fritti dal cuore morbido, ricoperti di miele e sesamo, che evocano l’abbondanza e la benedizione. La ricetta è un tesoro di famiglia, tramandata di madre in figlia con una precisione quasi religiosa. Il segreto è nella consistenza della pastella e nella temperatura dell’olio: troppo caldo e le sfince si bruciano, troppo freddo e non si gonfiano come dovrebbero. Le mani delle donne di Montemaggiore conoscono istintivamente il momento giusto per immergere la pastella nell’olio bollente, e il suono del fritto che sfrigola è un preludio di festa.
A completare il banchetto ci sono i cassatini, piccoli scrigni di ricotta dolce e pasta frolla, e le zeppole, soffici ciambelle ricoperte di zucchero. Ma c’è anche la ghiotta, una pietanza che somiglia alla caponata siciliana, ma è molto più ricca e complessa. Melanzane, pomodori, sedano, capperi e olive si fondono in un intingolo denso e saporito, cucinato lentamente fino a raggiungere la consistenza perfetta. La preparazione della ghiotta richiede maestria e pazienza, perché ogni ingrediente deve esaltare gli altri senza sovrastarne il sapore.
Il giorno della festa: tra fede e condivisione
Il 19 marzo, Montemaggiore si sveglia con l’aria pervasa di attesa e di profumi invitanti. La Pro Loco e il Comitato di San Giuseppe lavorano instancabilmente per allestire le lunghe tavolate in Piazza Roma e in Via Felice Giovannangelo, nei pressi della sede della Pro Loco. Le tavole, coperte da tovaglie bianche, sono decorate con spighe di grano, mirto, alloro e agrumi. I piccoli pani dalle forme più svariate – croci, pesci, colombe – adornano gli altari, insieme a candele accese e immagini sacre. È un quadro di armonia e di bellezza che mescola il sacro con il quotidiano.
La tradizione vuole che i primi a sedersi a tavola siano i virgineddi, bambini e ragazzi del paese che rappresentano la Sacra Famiglia. È un gesto di carità e di purezza: offrire il pasto ai più giovani è simbolo di speranza e di rinnovamento. Le donne servono le pietanze con mani esperte e sorrisi benevoli, mentre i bambini gustano le sfince e il pane benedetto con occhi sgranati e pieni di meraviglia.
Dopo i virgineddi, è il turno degli adulti. La piazza si riempie di voci e di risate, di piatti che passano di mano in mano, di bicchieri che si alzano per brindare. È un momento di condivisione che va oltre il cibo: è la celebrazione di un senso di appartenenza, di un’identità comune che resiste ai cambiamenti e al tempo. La gente di Montemaggiore sa che la festa di San Giuseppe è un rito che va oltre la fede: è un atto di comunità, di solidarietà e di amore per la propria terra.
Un rito antico che si rinnova
Le mense di San Giuseppe sono state spesso assimilate all’agape cristiana, il pasto comunitario che i primi cristiani celebravano per ricordare l’Ultima Cena. Ma a Montemaggiore, il significato è più arcaico e profondo. Invitare i virgineddi a mangiare è un gesto che richiama le radici agricole della Sicilia, una forma di ringraziamento per la fertilità della terra e per la protezione ricevuta. In questo senso, la festa di San Giuseppe è un sacrificio al dio, non del dio: non c’è l’idea del martirio, ma quella dell’offerta e della gratitudine.
Anche quest’anno, Montemaggiore si prepara a rinnovare questa tradizione antica. Le mani delle donne impasteranno ancora una volta le sfince e la ghiotta, il profumo del pane benedetto riempirà le strade, e le tavole di Piazza Roma accoglieranno la comunità con lo stesso calore di sempre. Tra i sorrisi dei bambini e le preghiere sussurrate, San Giuseppe continuerà a vegliare sul suo popolo, soddisfatto di vedere che il cuore di Montemaggiore batte ancora forte, unito nella fede e nell’amore per le proprie radici.
Perché alla fine, la festa di San Giuseppe non è solo una celebrazione religiosa: è un atto d’amore per la comunità, un rituale di condivisione che racconta una storia antica, una storia fatta di mani che impastano, di sorrisi che accolgono e di tavole che uniscono. Ed è in questo gesto semplice e universale – offrire il pane – che Montemaggiore trova la sua vera essenza.
Santi Licata
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