Negli studi sui fattori sociali di rischio della malattia e del disagio psichico il problema dell’emigrazione è stato ripetutamente preso in considerazione. Questa attenzione deriva evidentemente all’osservazione empirica, ripetutamente riportata, che il tasso di malattie mentali in genere e di ‘psicosi funzionali’ in particolare tenderebbe ad essere più alto presso gli emigrati.
Una valutazione di questo tipo, comunque, comporta in prima istanza una concreta definizione del ‘fenomeno migratorio’, del suo andamento e delle sue motivazioni. Già nel 1971, lo psichiatra Luigi Frighi propose una classificazione sociologica che distingueva tra migrazioni economiche e politiche, temporanee e definitive, isolate e di gruppo. Le migrazioni economiche a loro volta possono essere esterne e interne (le prime comportamento lo spostamento in un paese straniero, le secondo uno spostamento all’interno della propria nazione, come per esempio dal meridione al settentrione d’Italia).
Nel fenomeno migratorio vanno inoltre considerate alcune situazioni di ordine socio-dinamico, che caratterizzano un fenomeno che di per se appare socialmente complesso: la mobilità orizzontale, in senso propriamente geografico, per esempio, che si associa ad una mobilità verticale, che implica la collocazione ad un certo punto della scala sociale, e gli spostamenti lungo di essa. Questi spostamenti sociali determinano ovviamente dei mutamenti sia all’interno del gruppo che emigra, sia all’interno del gruppo sociale nel cui ambito questo è accolto. Si assiste allora a tutto un corteo di fenomeni psicologici e sociali che caratterizzano in modo tanto specifico il fenomeno migratorio. Tra di essi basterebbe ricordare gli effetti dell’impatto tra due culture diverse, lo sfaldamento della cultura più debole rispetto alla cultura dominante, i problemi specifici di tipo ambientale ed ‘ecologico’ che si accompagnano all’emigrazione, per esempio la relegazione in aree urbane o sub-urbane specifiche , prive di servizi sociali; i problemi legati all’acquisizione dei fondamenti culturali del nuovo luogo di residenza; e d’altro lato, il mutamento forzato che viene imposto alle aree urbane così occupate, che possono persino condurre a cambiamenti sostanziali nell’habitat di queste centri. Dal punto di vista psicologico è il caso di ricordare la tendenza degli emigranti a reagire a questa situazione di emarginazione con l’aggregazione in gruppi omogenei, che perpetuano al loro interno la cultura d’origine, con la creazione conseguente di vere ‘cisti sociali’ all’interno delle quali l’integrazione viene ostacolata, o negata, sino alla strutturazione di fenomeni reattivi concernenti una enfatizzazione della cultura originaria in relazione alla cultura ospite. Questo consente all’emigrante, in genere, di combattere l’isolamento che sarebbe altrimenti inevitabile, a costruire una vita sociale a lui congeniale, ma al contempo gli impedisce sostanzialmente, una qualunque forma di integrazione. Bisogna anche aggiungere che non sempre la scelta di certe zone, e di certe ‘nicchie ecologiche’ è libera. Chi emigra è in genere in condizioni economiche disagiate, e quindi costretto dalla stessa pressione economica a scegliere zone a basso costo, che sono poi le stesse nelle quali abitano o hanno abitato emigranti che lo hanno preceduto. Questi quartieri diventano delle vere ‘stazioni’ per l’emigrante, che vi trova già una ‘sub-cultura’ per così dire ‘pronta all’uso’, facilitante e opposta all’integrazione. D’altra parte, questi quartieri diventano ben presto terra bruciata per gli autoctoni, che si spostano altrove, e contribuendo essi stessi a creare delle ‘isole’ topografiche culturali, all’interno delle quali si sviluppa la sottocultura dell’emigrato, protettiva, materna, accettante – con regole e norme precise, però, spesso del tutto estranee alla cultura ospite, come lingua, come costumi, come comportamenti sociali.
Si comprende bene come una situazione di questo tipo sia altamente specifica, e tutto sommato sovrapponibile. E’ vero che alcuni gruppi sembrano più coesivi per altri (sebbene questa constatazione resti a livello di impressione), ma è anche vero che la dinamica del fenomeno è pressoché generale. Basti pensare, per esempio, a quanto è storicamente avvenuto nelle grandi città degli USA, per esempio New York, dove convivono numerose ‘isole sub-culturali’, per ciascuna delle quali valgono, in termini di socio-dinamica, le stesse regole (per esempio Harlem per la popolazione di colore, Bronx per gli ispanici e i portoricani, Little Italy per gli italiani, e via dicendo). In maniera non dissimile lo stesso fenomeno è accaduto nelle grandi città italiane del Nord (Torino, Milano, per esempio) a seguito dell’ondata migratoria interna al nostro Paese e che ha riguardato i ‘meridionali’ emigrati nel settentrione d’Italia per problemi economici, nel secondo dopoguerra del Novecento.
E’ ovvio che questa situazione estremamente complessa è un ottimo terreno di cultura per la psicopatologia, in generale.
Personalità e ambiente
E’ infatti indiscutibile la rilevanza dei fattori socio-culturali sulla salute mentale. Lo psichiatra Sivadon, già nel 1954, aveva notato che l’origine di psicopatologia in una condizione di emigrazione deriva dall’interazione tra la personalità di base del soggetto emigrato e l’ambiente di arrivo. La personalità, a sua volta, è strettamente agganciata ai modelli interiorizzati della propria cultura, per cui tanto maggiore sarà il divario tra la cultura di provenienza e quella di arrivo, tanto maggiore sarà il rischio di psicopatologia. In realtà questo dato, per quanto accattivante, non è stato chiaramente dimostrato su una base empirica: si poggia nondimeno su una serie di osservazioni e deduzioni che meriterebbero molta attenzione dal punto di vista epidemiologico.
Alcune variabili andrebbero, in effetti, attentamente valutate: l’età del soggetto, per esempio, essendo noto che una età minore è un fattore di sicurezza, almeno quanto un’età maggiore è un fattore di rischio per la stabilità di certi valori e norme culturali, e la difficoltà crescente dell’integrazione. Poi lo stato civile. Infine il livello socio-economico di partenza nella cultura nella quale si emigra.
Uno studioso del problema, Morrison, considerò una serie di variabili che agiscono in momenti diversi del processo di emigrazione-acculturazione. Alcune preesisterebbero prima della emigrazione (personalità di base, cultura, motivazione); altre intervengono durante l’emigrazione (lo stress legato alla migrazione stessa); altre ancora intervengono dopo la migrazione (atteggiamento dell’ambiente verso l’emigrante, pressione all’acculturazione, disponibilità di lavoro, gratificazione o frustrazione delle proprie aspettative).
Emigrazione e schizofrenia
Una situazione di tale complessità è, come già detto, un ottimo terreno di cultura per la patologia mentale. Questo dimostra l’interesse dato all’emigrazione nelle ricerche sui fattori psicosociali di rischio della schizofrenia.
Esisterebbe al riguardo una precisa interpretazione psicopatologica. L’emigrante, cioè, potrebbe tentare di adattarsi al nuovo ambiente sociale, adottandone tutti i modelli esteriori, senza una vera interiorizzazione degli stessi, ma con la necessità di rifiutare i propri valori di origine. Può derivare, da questa situazione, un vuoto esistenziale, di valori, ed un disorientamento successivo. Ne risulterebbe una risposta ‘iper-adattiva’, nella quale al disorientamento interiore si risponde con un aumento frenetico di attività nel luogo di emigrazione e una passiva accettazione dei nuovi modelli. Al contrario è possibile verificare delle reazioni di ‘non-adattamento’, consistente in una adesione stereotipata, eccessiva ai modelli originali vissuti come conflittuali rispetto a quelli attuali all’interno dei quali l’emigrante si trova a vivere; ne conseguirebbe una elaborazione del vissuto in forma nostalgica o interpretativa.
Il problema è però di tipo più francamente epidemiologico. Si tratterebbe, cioè, di considerare realisticamente i tassi di prevalenza e di incidenza di schizofrenia in popolazioni di emigrati, in base a metodiche inequivocabili e standardizzate. Studi di questo tipo sono stati ripetutamente compiuti, da tempo. Il primo fu quello dell’epidemiologo norvegese Odegard che, nel 1932, che utilizzò dati del registro psichiatrico norvegese e dati sui ricoveri psichiatrici nel Minnesota, negli USA. Egli trovò che la schizofrenia si manifestava più frequentemente tra i norvegesi che erano emigrati in America rispetto ai norvegesi rimasti in patria. Nel 1960, sempre in Norvegia fu verificato il fenomeno dell’aumento dei ricoveri psichiatrici per schizofrenia tra i norvegesi che ritornavano in patria dopo un periodo di emigrazione. Un altro studio epidemiologico, stavolta tra gli ungheresi sfuggiti dal loro paese dopo la rivolta del 1956, mostrò dati simili, rivelando anche una maggiore frequenza di schizofrenia tra i soggetti che non adducevano motivi politici per l’emigrazione rispetto a quelli che gli adducevano. Negli anni ’70 del Novecento, furono studiati in Inghilterra e nel Galles i tassi per primo ricovero di schizofrenia, e si verificò che essi erano più alti per le donne irlandesi rispetto agli uomini, e per gli emigrati indiani (India occidentale) e pakistani.
Una ricerca del 1980, condotta dallo psichiatra Hafner, ha evidenziato risultati di particolare interesse, studiando la popolazione lavoratrice residente in Germania Federale. Praticamente, risultò tra i lavoratori stranieri, in particolare tra la minoranza turca, particolarmente rappresentata, una minore morbilità rispetto alla popolazione locale e a quella del paese d’origine. I dati furono spiegati in base all’ipotesi della selezione, nel senso che i lavoratori ammessi come emigranti in Germania, dovevano superare severissimi esami medici, che agivano da filtro sulla popolazione malata. Nei paesi d’origine insomma, rimangono non solo i vecchi, ma anche i soggetti ammalati e quelli a rischio di schizofrenia. L’ipotesi della selezione può così spiegare anche altre rilevazioni epidemiologiche relative ad una maggiore morbilità rilevata in Istria e in Irlanda, regioni dove è molto presente il fenomeno dell’emigrazione, per cui le ricerche epidemiologiche sono – per tale fenomeno sociale – condotte su una popolazione automaticamente selezionata dal fenomeno migratorio che lascia nei paesi d’origine le persone a rischio di schizofrenia.
Studi epidemiologici sono stati anche compiuti sul fenomeno della migrazione interna ad una nazione. Si sono osservati, per esempio, tassi minori di primi ricoveri nei casi in cui si verificava la migrazione da aree rurali ad aree cittadine, e un aumento degli stessi tassi, invece, nei casi in cui la migrazione si verificava in direzione contraria.
La scena attuale
Rispetto ai periodi in cui sono stati condotti questi studi – e molti altri che non abbiamo citato – il problema del rapporto causale fra emigrazione e malattie mentali è decisamente cambiato, per una serie di mutamenti sociali e geopolitici epocali. Sono cambiate le caratteristiche fondamentali dell’emigrazione e la tipologia, per così dire media, dell’emigrato. Di conseguenza è cambiata anche la psicopatologia che è possibile rilevare. Per quanto intensa fosse, l’emigrazione del Novecento non è in alcun modo paragonabile, né dal punto di vista numerico, né da quello della eterogeneità culturale, a quella odierna. Per quanto turbinosa possa essere stata nel Novecento, non regge minimamente il confronto con quanto accade ora: una vera, disperata diaspora che più che ricordare i ‘bastimenti’ carichi di italiani o di irlandesi o di ispanici che sbarcavano sula costa orientale degli Stati Uniti, o in Australia, o in Argentina, ricorda le grandi migrazioni della preistoria. Milioni di esseri umani che, per fame, disperazione, si catapultano in ogni modo e con ogni mezzo dal Sud al Nord del mondo. Una valutazione epidemiologica delle loro condizioni psicologiche o psicopatologiche è pertanto quanto mai difficile, per una serie di problemi metodologici che, ad oggi, appaiono insormontabili: basta pensare ai problemi linguistici o socio-giuridici (la frequente condizione di clandestinità). Ma esiste anche un problema psichiatrico. Considerate le condizioni drammatiche, talvolta disumane che caratterizzano questa gigantesca diaspora, come si può riuscire a distinguere la le condizioni psicologiche proprie al soggetto o quelle dovute alle mostruosità ed ai sacrifici che queste persone hanno quasi sempre affrontare per arrivare in Occidente? E qual è il costo, in termini di salute mentale, che queste persone pagano per le innegabili difficoltà di accettazione, prima ancora che di integrazione?
Uno dei dogmi delle vecchie ricerche sul rapporto fra emigrazione e patologia mentale era quello della ‘selection drift’, o, letteralmente, della ‘deriva selettiva’, in realtà una forma di selezione in qualche modo simile a quella naturale ipotizzata da Darwin. Detto in soldoni: le persone con disturbi mentali, talvolta anche gravi sino alla schizofrenia, hanno una maggiore tendenza ad emigrare, o essi diventano affetti da psicopatologia in seguito all’emigrazione? Sebbene studi come quello di Hafner (che abbiamo già citato) tenderebbero a dimostrare che sotto certe condizioni la popolazione che emigra è più sana di altre fasce di popolazione riguardo alla salute mentale, resta sempre da verificare se questo dato può essere esteso ad altri aspetti del fenomeno migratorio, per esempio alle migrazioni interne alla nazione (per le quali non esiste alcuna selezione medica) o se esso era presente originariamente. Se non lo era, potrebbero essersi selezionati gruppi tendenzialmente a rischio di disturbi mentali, nei quali questa tendenza morbosa, in termini di strutture familiari e sociali, modelli educativi e/o genetici, potrebbe essersi perpetuato. Ne deriverebbe l’ipotesi di nicchie ecologiche ‘psicopatogene’, che potrebbero in qualche modo spiegare il fenomeno della maggiore prevalenza di disagio mentale nelle comunità di emigranti.
Questa teoria, già incerta quando fu formulata, è oggi del tutto inattendibile, perché impossibile verificarla. Sarebbe assai meglio concentrarci su quanto siano responsabili di disagio psichico i meccanismi inceppati di una integrazione che, per quanto possibile da attuare, ha sinora, per molti versi, il sapore amaro dell’utopia.
Giovanni Iannuzzo