Dottore, sono matto? Il problema della diagnosi in psichiatria

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La psichiatria è una branca della medicina. In questo non differisce affatto da altre specializzazioni mediche. Considerarla una specialità ‘diversa’ è solo stato il prodotto di un pregiudizio sociale che ha imperversato per decenni. Resta il fatto che, per un certo numero di persone, andare dallo psichiatra non solo non è una esperienza piacevole, ma anche inquietante. Non è meglio evitare, se possibile, questa esperienza? E perché andare dallo psichiatra fa spesso tanta paura? Non certo perché lo psichiatra debba essere necessariamente come il dottor Hannibal Lecter, lo psichiatra cannibale di “Il silenzio degli innocenti”, o una specie di dottor Jeckill in grado repentinamente di trasformarsi in mister Hyde. Il problema è diverso: andare dallo psichiatra implica assai spesso fantasie legate alla malattia mentale, ai propri vissuti, al proprio malessere che riguarda la mente e le sue attività e le sue funzioni. E la mente non è un ‘organo’: non è la stessa cosa avere una colica renale o un attacco di panico. La colica renale è circoscrivibile, distinguibile, identificabile all’interno dei confini del corpo. Un attacco di panico, una crisi di ansia, una depressione superano questi limiti, li travalicano e dilagano nell’esistenza individuale, senza che sembrino più circoscrivibili. Lo psichiatra è quello che può capire perché e come questo avviene, ma nel farlo ci dice delle cose che possono anche turbarci, può suscitare nei più reconditi recessi della nostra mente, mettere a nudo le nostre angosce più profonde e più antiche. Questo è almeno quello che assai spesso appartiene all’immaginario individuale.

In realtà, lo psichiatra è un medico come tanti altri, e la visita psichiatrica non si differenzia poi molto da qualunque altra visita medica, con l’eccezione di quella che in medicina viene definita ‘semeiotica’. Semeiotica significa studio dei segni della malattia, per individuare i quali gli altri medici utilizzano strategie particolari: l’osservazione, la palpazione, l’auscultazione, e via dicendo. Ma la mente non può essere ‘visitata’ con gli stessi metodi e gli stessi strumenti. Non possiamo appoggiare lo stetoscopio sulle nostre ansie. Sono necessari metodi diversi. E il metodo prioritario è il colloquio. E’ da quello che dice il paziente, oltre che dall’osservazione del suo comportamento, che lo psichiatra trae gli elementi per la diagnosi. E questo colloquio verterà sui sintomi, su quello che il paziente pensa, sui suoi vissuti, sulle sue idee, su ciò che fa, su quello che progetta, sulle sue relazioni sociali, sulla sua vita affettiva, sulla sua vita professionale. Lo scopo di un colloquio tanto dettagliato è quello di avere una immagine il più precisa possibile della vita del paziente, dei suoi sintomi e del modo in cui questi interagiscono con la sua esistenza.

Come fa lo psichiatra a diagnosticare una malattia? In base a cosa lo psichiatra capisce che una persona è malata, e come stabilisce di che malattia si tratti?

Infatti, come per le malattie organiche, anche per i disturbi psicologici esistono diagnosi, esiste quella che si chiama una nosografia (dal greco, “descrizione della malattia” ). E’ in base a questa diagnosi che si può prescrivere la terapia più opportuna.

Prima di arrivare alla diagnosi però occorre decidere se è il caso di diagnosticare qualcosa. E questa è la prima funzione della visita psichiatrica. La chiameremo la funzione di filtro.

Il paziente che va dallo psichiatra appartiene a tre categorie: la prima è quella dei malati ‘veri’, persone, cioè, che presentano una patologia mentale più o meno grave, che altera in maniera sensibile il comportamento di quel paziente, e la sua capacità di entrare in relazione con gli altri e col mondo. La seconda categoria è composta da pazienti che hanno problemi di ordine psicologico e di comportamento, ma più afferenti alla sfera esistenziale o psicologica. Poi c’è la terza categoria di paziente, che è quella che si rivolge allo psichiatra perchè ha il sospetto che ci sia qualcosa che non va. Ed è proprio con questa terza categoria di pazienti che si deve mettere in atto quella funzione di ‘filtro’ alla quale ci riferivamo. Lo psichiatra, cioè, deve distinguere se quello del paziente è un vero problema o non lo è, se il comportamento che il paziente reputa difettuale è davvero conseguenza di patologia, o semplicemente una espressione di disagio che non implica affatto un trattamento. Molte persone si recano dallo psichiatra, in fondo, per essere rassicurate sul fatto che non stiano “dando fuori di matto”, che ciò che pensano o ciò che vivono sia normale e non patologico. E’ arduo definire se un comportamento sia normale o non lo sia. E, poiché non esiste un ‘prontuario’ dei comportamenti normali, si tratta anche di un lavoro che implica un grosso impegno da parte dello psichiatra. Ma la funzione di filtro si espleta anche negli altri casi: una persona che ha un disagio psichico, di qualunque gravità, mette in atto una serie di comportamenti complessi e articolati, come quelli di persone ‘normali’. E’ chiaro che diventa allora spesso importante indirizzare ed orientare il paziente, aiutandolo a distinguere tra comportamenti che sono assolutamente normali, e comportamenti che sono frutto del suo stesso disagio. La funzione di filtro si esprime anche in maniera opposta, comunque: per esempio identificando comportamenti che sono patologici o disturbati, mentre vengono considerati assolutamente normali dal paziente, dalla sua famiglia, o dal medico generico, e che in realtà nascondono un disagio talvolta anche grave. Insomma, la prima funzione dello psichiatra è quella di catalogare in qualche modo le informazioni che vengono fornite dal paziente, per stabilire dove passi il confine tra normalità e patologia. Talvolta il colloquio psichiatrico si esaurisce tutto in questa funzione. Se si intravede invece un qualche problema patologico, si passa al secondo momento della visita psichiatrica: la diagnosi.

Dal punto di vista diagnostico la psichiatria è stata per tanto tempo una scienza immaginifica. Per decenni, i disturbi mentali o del comportamento sono stati classificati nei modi più fantasiosi, con espliciti riferimenti a disfunzioni disturbi cerebrali, a problemi neurologici, o semplicemente con vere e proprie ‘invenzioni’ linguistiche. Il risultato di questa nomenclatura ridondante è stato che, ad un certo punto, non ci si capiva più niente: ognuno utilizzava le proprie classificazioni, faceva diagnosi in base a questa o quella scuola, e più ci si allontanava geograficamente più le diagnosi si diversificavano.

La soluzione a questo problema fu trovata originariamente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che propose un sistema standardizzato di catalogazione di tutte le malattie, e quindi anche di quelle psichiatriche. Questo sistema classificatore, detto ICD (International Classification of Diseases, Classificazione Internazionale delle Malattie), a poco a poco divenne un primo punto di riferimento, ma la grande svolta in questo campo si ebbe quando l’American Psychiatric Association, l’associazione professionale degli psichiatri americani, varò il progetto di un sistema interno di classificazione psichiatrica fondato su una valutazione detta ‘multiassiale’. Questo sistema, diagnostico e statistico, prendeva in considerazione le varie forme di disturbo psichico in base ai sintomi prevalenti, alla loro durata, alla compromissione della funzionalità sociale, e, insomma, ad una serie di parametri per così dire obiettivi, empirici, subito rilevabili. Il nuovo sistema di riferimento venne chiamato DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) e rappresentò un tentativo, abbastanza audace e complesso, di creare un ‘vocabolario’ comune a tutti gli psichiatri moderni, a qualunque nazione appartenessero e qualunque formazione avessero avuto. Nel corso degli anni il DSM divenne un sistema diagnostico di riferimento sempre più diffuso, favorendo non solo la diagnosi clinica standardizzata, ma anche la circolazione delle notizie scientifiche, sulle quali finalmente si cominciava ad intendersi: la schizofrenia diagnosticata dagli americani, diventava sempre più simile alla schizofrenia diagnosticata dagli europei o dai cinesi. Ci si cominciava a capire. Del DSM sono state fatte diverse edizioni, (attualmente siamo alla quinta, riveduta). Il numero dell’edizione è importante in quanto da una edizione all’altra cambiano parametri, definizioni e classificazioni, per cui quando si cita il DSM, si cita anche l’edizione.

Tutto questo ha reso la diagnosi psichiatrica standardizzata, condivisa e sintetica: Oggi lo psichiatra ha pertanto la possibilità di fare una diagnosi clinica molto precisa e chiara, in base all’esame dei segni e dei sintomi.

La diagnosi psichiatrica può anche utilizzare altri strumenti, a parte quelli fondati sull’osservazione. Per esempio può prevedere esami del sangue particolari. Questo perché esistono delle condizioni assolutamente non psichiatriche che provocano disordini psichiatrici: la mancanza di ferro nel sangue può produrre una sindrome depressiva, l’iper funzionalità della tiroide può provocare un quadro di agitazione ansiosa, la carenza di calcio si può tradurre in una serie di disturbi dell’umore, anche piuttosto rilevanti. Allora, qualora lo psichiatra lo reputi opportuno, può prescrivere esami specifici, che tendano a valutare se c’è qualcosa di somatico che possa provocare il disturbo che viene riferito. Inoltre esistono diversi strumenti diagnostici per immagini (dalla Tomografia Assiale Computerizzata (TAC), alla Risonanza Magnetica Nucleare (RNM), alla Tomografia ad Emissione di Positroni (PEC), che possono essere utilizzati se lo psichiatra ne ravvisa la necessità. Inoltre la visita psichiatrica può essere accompagnata da una visita neurologica, nei casi in cui questo è necessario. Ci sono malattie neurologiche (che riguardano quindi i nervi e il cervello, e non la mente e le sue funzioni) che possono produrre comportamenti anomali o bizzarri, quadri di ansia, depressione, angoscia. Allora, anche la visita neurologica può essere aggiunta alla visita psichiatrica, per valutare, anche con l’uso di altri esami strumentali specifici, se il sintomo presentato dal paziente è di pertinenza strettamente psichiatrica, o necessita di altre cure e di altri specialisti, quando si sospetta che quel dato quadro clinico non sia motivato da un cattivo funzionamento della mente, quanto da un cattivo funzionamento del corpo che si ripercuote sul comportamento.

Molta acqua è passata sotto i ponti, insomma, da quando la responsabilità della diagnosi psichiatrica era fondata sul semplice parere soggettivo dello psichiatra. Parere che resta importante, come quello di qualunque medico nell’ambito clinico, ma che, ormai da tempo, può essere supportato da dati obiettivi, tutelando al tempo stesso la professionalità dello psichiatra e la salute del suo paziente.

Giovanni Iannuzzo

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