Ci sono storie che sanno di leggenda, di miracolo, di comunità. E quella del Santissimo Crocifisso di Montemaggiore Belsito è una di quelle che, ancora oggi, commuove e unisce un intero paese. È il cuore pulsante della devozione popolare, un simbolo che attraversa i secoli e le generazioni, accompagnato da processioni, promesse e preghiere.
Era l’anno 1625. La Sicilia, parte dell’Impero Spagnolo, viveva sotto il governo del Viceré, tra i pesi del dominio feudale e la crescente povertà delle campagne. Ma ancor più spietata fu la peste che, proprio in quell’anno, flagellò Palermo e i suoi dintorni, mietendo vittime e diffondendo terrore.
Mentre nel capoluogo si narrava della miracolosa apparizione di Santa Rosalia, a Montemaggiore si diffondeva un’altra voce: un Crocifisso ligneo, di straordinaria bellezza, era stato ritrovato nei pressi di un antico monastero benedettino, poco fuori dall’abitato. Il luogo, da sempre considerato silenzioso e sacro, si trasformò in punto di pellegrinaggio.
Per il popolo montemaggiorese, quell’immagine sacra non era solo legno scolpito, ma un segno tangibile della protezione divina. In quel clima di paura e disperazione, nei pressi di un antico monastero benedettino, a pochi passi dal centro abitato di Montemaggiore, viene ritrovato proprio un’effige di Cristo in croce. Nessuno sa da dove venga davvero, ma la sua comparsa viene subito interpretata come un segno divino. Un simbolo di speranza, una presenza da proteggere e onorare.
Da quel momento, la devozione cresce. Passano poco più di cinquant’anni, e nel 1676 la principessa Lucrezia Migliaccio, guarita miracolosamente da una grave malattia, decide di costruire una chiesa in suo onore. Nasce così la chiesa del SS. Crocifisso, impreziosita dagli affreschi di Filippo Randazzo e dalla mano dell’architetto Francesco Ferrigno. Lì viene custodito il Crocifisso miracoloso, al centro della vita religiosa del paese.
Ma la vera svolta arriva più di due secoli dopo, nel 1837. In quell’anno, una nuova paura si insinua tra le case: il colera. A Palermo e in tanti altri centri siciliani, il morbo miete vittime senza tregua.
Nel 1837, tra altri, muoiono a Termini Imerese il patriota, storico ed economista siciliano Nicolò Palmeri (1778) e a Palermo il fisico e storico, anch’esso siciliano, Domenico Scinà (1765). La causa del loro decesso è la medesima: proprio il colera, che, nell’estate, si era diffuso nel capoluogo di regione siciliano e nella sua provincia, mietendo numerose vittime.
Anche Montemaggiore teme il peggio. Così, il 10 luglio, il popolo si riunisce nella chiesa del Crocifisso. È un momento di forte tensione, ma anche di grande fede. Il clero, i rappresentanti del comune e i cittadini si stringono insieme per fare un voto solenne: se il paese sarà risparmiato, ogni anno, per sempre, celebreranno il Crocifisso come loro patrono, con solenni celebrazioni l’11, 12 e 13 settembre.
Quel voto non è solo un atto spirituale, è una dichiarazione di fiducia nel soprannaturale, un patto collettivo tra il popolo e il suo simbolo più sacro. Il documento, firmato da ecclesiastici e civili, è ancora oggi una delle testimonianze più toccanti della fede popolare. Il Crocifisso viene ufficialmente eletto Compatrono di Montemaggiore Belsito, assieme alla Patrona Sant’Agata, tale da tempo immemore.
Ma la storia non finisce lì. Perché, nonostante la preghiera accorata, il morbo arriva. Il 20 agosto 1837, il colera fa le sue prime vittime anche a Montemaggiore. Tra queste, il reverendo arciprete Filippo Muscarella. È un duro colpo per la comunità. Ma poi il contagio rallenta. Le vittime restano quindici, un numero limitato rispetto agli altri centri. Il paese si salva, e molti attribuiscono quella salvezza proprio all’intercessione del Crocifisso e alla sua protezione.
Ogni anno, a settembre — nei giorni precedenti, successivi e il 14 compreso — ma anche il 3 maggio, Montemaggiore si trasforma. La processione della vara lignea, con la statua del Crocifisso portata a spalla per le vie del paese, è molto più di un rito religioso: è un momento di riconoscimento collettivo, una narrazione identitaria che si rinnova. L’artigianato, i canti, le luci, i volti: tutto contribuisce a dare forma visibile a una memoria comune.
La sua monumentale “vara lignea”, voluta dal barone Nasca, un capolavoro dell’artigianato religioso, viene portata in processione con all’interno la statua lignea. Le strade si riempiono di gente, canti, luci, preghiere. Non è solo una festa religiosa, è un momento di identità collettiva, un rito che rinnova la promessa fatta quasi due secoli fa.
In un’epoca come la nostra, in cui anche la pandemia recente ha risvegliato antiche paure, la storia del Crocifisso di Montemaggiore continua a parlare. Parla di come, in tempi di crisi, una comunità trovi forza in un simbolo. Che si creda o meno al miracolo, il vero prodigio è la capacità delle persone di unirsi, di darsi senso, di trasformare la paura in rito, e la sofferenza in speranza.
Una storia che, tra fede, tradizione e memoria, continua a essere raccontata. E vissuta.
Santi Licata
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